lunedì, ottobre 12, 2020

Tempo, scienza, colori: un confronto tra Yellow Submarine e Tenet



Ho visto un film in cui due squadre di personaggi agiscono nello stesso momento: una va indietro nel tempo, l'altra avanti. E i membri che le formano sono gli stessi: in scena, cioè, ci sono contemporaneamente due versioni delle stesse persone. Si vedono, si incontrano, interagiscono. Sto parlando di Tenet di Christopher Nolan? Anche. Ma lo spunto da cui nasce questa riflessione è Yellow Submarine, la divertente (e delirante) avventura animata con i Beatles del 1968. Il segmento in questione è quello che apre il viaggio dei Fab Four sul sommergibile giallo, nel cosiddetto «Mare del Tempo».

Mettere a confronto Tenet e Yellow Submarine è un gioco intrigante, che ci dice molte cose sulle differenze tra gli anni Sessanta del secolo scorso e gli anni Dieci/Venti di questo. Anche nel pensare, gestire e raccontare le distorsioni temporali. Mentre Nolan costruisce un immenso castello scientifico-enigmistico, dove allo spettatore è richiesta una concentrazione massima per ottenere in cambio una comprensione minima (il film andrebbe rivisto due, cinque, dieci volte per prendere dimestichezza con i suoi meccanismi), quello dei Beatles è un sogno colorato che agisce esattamente al contrario: lo guardi con il minimo sforzo, ottenendo il massimo carico della sua abbacinante fantasia.

Il discorso vale per l'intero cartone animato, ma la sequenza nel «Mare del Tempo» è particolarmente efficace ed esemplificativa: non che manchino i paradossi e gli alambiccamenti tipici dei salti nel tempo, ma vengono presentati in modo esuberante, giocoso, con una estrema semplicità di lettura grafica e simbolica. Non devi sforzarti troppo per assimilare le immagini dei Beatles che tornano bambini, delle loro controparti che invecchiano rapidamente, o di tutti quegli orologi, clessidre e numeri che li circondano. Mentre Nolan cerca di spiegarci tutto fino alla dimensione subatomica, addentrandosi con piglio da scienziato in un maelstrom di impossibilità, i Beatles non spiegano nulla: la loro al massimo è fanta-filosofia, non fanta-scienza.

Per spiegare meglio questa differenza, ci aiuta un fuoripista a Disneyland. Immaginate di trovarvi di fronte Eta Beta, con il suo magico gonnellino nero da cui tira fuori di tutto. I Beatles di Yellow Submarine vengono da quel mondo di finzione: inventano, mostrano, ma non stanno a perder troppo tempo nel cercare di spiegarci come funziona. È la ragione per cui quello del tempo è solo uno dei tanti mari che esplorano con il sottomarino giallo (ci sono anche il «Mare della Scienza», il «Mare dei Mostri», il «Mare del Niente», il «Mare delle Teste», il «Mare dei Buchi»). Nolan è l'esatto opposto. Se dovesse mai girare un film su Eta Beta, probabilmente il 90% sarebbe dedicato alla giustificazione scientifica del suo gonnellino. Non è un caso, infatti, se all'ossessione spaziotemporale è dedicata quasi tutta la sua filmografia extra-Gotham (Memento, The Prestige, Inception, Interstellar...). 

Eta Beta e il suo tornello spazio-temporale quantico.  

Yellow Submarine sta agli anni Sessanta (o alla nostra percezione di essi), come Tenet sta all'attuale presente degli algoritmi. E forse Christopher Nolan è il più grande regista contemporaneo proprio per il coraggio, la coerenza, il rigore (e la probabile sofferenza) con cui affronta l'elemento davvero caratterizzante della nostra società e del nostro tempo: la sua estrema complessità. Una complessità che è implicita nell'idea stessa di globalizzazione (un unico network di sette miliardi di persone è inevitabilmente più complesso di tante comunità di poche centinaia, migliaia o anche milioni) ed esplicita nell'oggetto-simbolo della nostra epoca, lo smartphone (vi siete mai chiesti come fa davvero a fare tutte quelle cose?). 

L'architrave della poetica di Nolan è quasi un'utopia: lui prende qualcosa di iper-complesso (metafora del presente) e cerca di darcene una spiegazione scientifica. A rimetterci, quasi inevitabilmente, è la ruota dei colori. I suoi universi sono privi di vivacità. Tutto appare avvolto nell'ovatta monocromatica di una giornata luminosa ma senza un cielo davvero azzurro, un po' come quella che si vede alle spalle di John David Washington nell'immagine in apertura. Grigioblu: un colore perfettamente in linea con la realtà tecno-apatica del 2020 (il blu del digitale più il grigio dell'immobile flusso infinito). Allo stesso modo, la psichedelia e l'esplosione accesa di Yellow Submarine sembrano invece riportarci a un altro zeitgeist visivo, quello degli anni Sessanta, un decennio in cui la pop music, la pop art e tutto il resto del pop conquistarono il mondo occidentale, ricoprendolo con uno tsunami d'energia che sembrava in grado di lavar via finalmente gli ultimi detriti della Seconda Guerra Mondiale.

Il mio può sembrare un discorso deprimente, la constatazione di un'agonia o anche una critica a Nolan (e a un film, Tenet, che in effetti mi ha lasciato con non poche perplessità). In realtà è soprattutto un complimento: la certificazione del ruolo dell'Artista (quello con la A maiuscola, trasversale ai generi e ai linguaggi) come colui che – se non vuole limitarsi a replicare/rimpiangere/riprodurre il passato – deve forgiare le sue opere nello spirito esatto del tempo in cui vive. E lo spirito in cui stiamo vivendo da ben prima del tuffo nel virus, mi sembra rappresentato in modo davvero efficace dalla trappola palindromica di Tenet. Una dimensione sigillata, centripeta, dove il passato e il futuro convergono verso il presente. Ben distante dalla centrifuga cornucopia di possibilità a 360 gradi che è Pepperland, il pianeta multicolore di Yellow Submarine. Dove, e qui c'è un'ultima gustosa coincidenza, il Blu è il colore del Male, dei cattivi «Blue Meanies», coloro che vogliono spegnere la musica, la vita e tutto il resto.