Quando vogliamo fare i simpatici, tra amici in odor di melomania, prendiamo in giro Brian Eno. Lo immaginiamo seduto a casa, appena ricevuto l'incarico per la sonorizzazione di qualche reggia/galleria/palafitta d'arte contemporanea, che smanetta sul computer, apre una vecchia cartella, trova un file con registrate sopra cinque note a caso ed esclama: «Ok, questa può andare». E giù titoloni sui giornali, inni al guru del suono del nuovo millennio, celebrazioni per il capolavoro, tappeti rossi e chiavi della città.
Naturalmente, la nostra è tutta invidia. E gli eventuali cespugli di verità sono sacrosanti benefit di una carriera con poche eguali. In ordine sparso, riassumendo molto: gli inizi con i Roxy Music, i primi dischi solisti, la collaborazione alla trilogia berlinese di Bowie, i lavori con i Talking Heads e David Byrne, il quadrittico The Unforgettable Joshua Baby Zooropa con gli U2, oltre al tocco magico di saper avvicinare l'avanguardia al mainstream. Roba che quando lo incontri ti viene inevitabilmente da bombardarlo di domande sugli ultimi quarantacinque anni di musica. E lui giustamente ti risponde con l'imperial arroganza con cui ha respinto la retromania di un giornalista del Guardian: qui si parla di futuro, non di David Bowie.
Eno è anche l'inventore della musica ambient. Un genere a cui si può ascrivere Reflection, distribuito tranquillamente il 1° gennaio, come biglietto d'auguri per un 2017 che di tranquillità ne promette ben poca. Ascoltare Reflection, per il sottoscritto, è stato come riscoprire Gattaca. Varcare la porta dell'universo dischiusa da quella fantaperla di fine anni '90 ed entrare – essere umano dal DNA non modificato – in una dimensione parallela, spaziale, aliena, in volo verso le Lune di Saturno. Un'altra fuga dalla realtà, dopo quella provata con i Radiohead (infine, a quarant'anni ho deciso: voglio fare l'astronauta). Un altro viaggio ad anni luce dalla Terra, in un ambiente iper-sintetico che ti lusinga dolcemente a meditare, ma senza obbligarti a farlo in compagnia di ruscelli, fronde al vento, cinguettii o altri naturismi new age.
Fonte: www.brian-eno.net |
No, non c'è molta Madre Terra in Reflection: il suo DNA è attorcigliato dal soffio del moderno dio algoritmico. Brian Eno esercita la funzione dello scienziato contemporaneo: il coder. Ha scritto il software, definito le variabili, avviato la macchina, studiato il risultato dell'esperimento. Qui l'ambient incontra l'altro prediletto terreno d'esplorazione dell'artista: la musica generativa. Niente ritornelli melodici, niente strutture ritmiche, niente pattern precisi (o riconoscibili dal nostro orecchio occidentale). E un confine - 54 minuti - dettato solo dall'esigenza di finir su vinile. Il leggero riflesso di Reflection potrebbe benissimo propagarsi all'infinito, come un'onda gravitazionale in cerca di una galassia lontana lontana e accogliente. Un'ambizione, quella dell'infinito, che fa da bussola all'applicazione per smartphone distribuita assieme all'album, sulla quale tornerò in altra sede.
Se siete arrivati fino a qui, dubito che vi siate fatti un'idea chiara sulla musica di Reflection. È giusto così. Quest'album è la prova che a volte scrivere di musica è davvero come ballare d'architettura. Una cosa però devo aggiungerla: da una ventina di giorni Reflection è l'accompagnamento ideale per qualsiasi momento in cui voglio staccare la spina del frullatore della comunicazione. È un Gattaca che ti avvolge e protegge mentre scrivi, mentre pensi, persino mentre ti radi. È abbastanza significativo che le due opere che più mi hanno lasciato qualcosa in questo inizio di 2017 siano un album (Reflection) e un film (Paterson) in cui tutto sembra destinato a fermarsi e a ripetersi in un modo solo all'apparenza identico. Contagiati dal virus della polarizzazione acuta, abituati a considerare lo shock come unico cambiamento degno di questo nome, diventa quasi rivoluzionario lasciarsi cullare dall'impercettibile diversità delle sfumature.