domenica, aprile 05, 2020

Il virus che se ne frega dell'istante


Nel corso dei secoli, i virus hanno sempre bersagliato l'umanità. E l'umanità, in un modo o nell'altro, ne è sempre uscita. Letteralmente. Per fare un esempio abbastanza recente, tra il 1918 e il 1920 l'influenza spagnola uccise decine di milioni di persone in tutto il mondo, ma già nel 1921 la gente girava per le strade, frequentava eventi pubblici, riempiva cinema e locali. Faceva quello che fanno gli esseri umani. Nella Parigi dei primi anni Venti, quella cantata da Hemingway, non sembra che l'influenza fosse al centro dei pensieri e delle preoccupazioni. 
Eppure in questi giorni mi capita di leggere foschissime previsioni sul dopo-coronavirus: niente sarà più come prima, avremo paura a socializzare, non ci saranno mai più assembramenti, dimentichiamoci i concerti o i film al cinema, dovremo portare sempre le mascherine, il virus non se ne andrà, eccetera eccetera.
Non voglio entrare nello specifico medico/scientifico del coronavirus e nemmeno addentrarmi nei paralleli e nelle differenze con le epidemie del passato: sono temi su cui ne so quanto di semiotica del curling. Preferisco provare a ragionare su come il virus abbia violato un sacro dogma della contemporaneità: che tutto si debba sempre consumare in un istante. E sul perché questa violazione sia - a mio parere - una delle cause del dilagante e apocalittico pessimismo. 
In termini di comunicazione/informazione/percezione, l'aspetto sacrilego di questo virus è che si è rifiutato di scomparire con la rapidità di un meme. Dai giorni di Codogno (finché stava a Wuhan, era una nocciolina da sgranocchiare guardando il Festival di Sanremo) ha preso possesso della nostra mente e non se n'è più andato via. Abituati a una sequenza infinita di snack informativi a scadenza rapida – le banane appiccicate con lo scotch di Cattelan, le scope che rimangono in piedi da sole, l'irresistibile diatriba BugoMorgan, le puntate delle serie tv già dimenticate mentre ancora le si sta guardando - ci siamo trovati di fronte a un mostro dall'andamento insopportabilmente lento. Quello che per i virologi è un virus velocissimo, per i massmediologi è un dannato bradipo. Prima minacciava di occupare una settimana di palinsesto delle nostre vite, poi un mese, quindi una stagione, adesso forse un anno.
Un anno. Stiamo scherzando? La nostra mente, le nostre dita, i nostri occhi, il nostro cuore sono stati indottrinati all'idea che tutto esiste al massimo per 15 secondi. Poi svanisce, sostituito dalla successiva effimeritudine. È così che il nostro cervello, addestrato dai social network e dal 24/7, vede ormai la realtà: come una successione di istanti.
Ed è questo - per chi ha la fortuna di non trovarsi in un ospedale a combattere per la propria vita e per quelle altrui - l'aspetto del virus che appare davvero inaccettabile: quello che ci manda in tilt, bruciacchiando la cartavelina che è diventata la nostra mente.
Rifiutandosi di svanire come un BugoMorgan qualsiasi, il coronavirus ci precipita in un baratro di fatalismo, nel quale rotoliamo senza più trovare adeguati strumenti della ragione e della pazienza a cui aggrapparci. Il cervello dell'Homo Digitalis esige risposte subito. Adesso. Ora. Non accetta che lo scorrimento del suo grande feed si sia bloccato, congelato sulla parola «coronavirus». Se ciò è avvenuto, vuol dire che è la fine del mondo. Niente sarà più come prima. Arriva Cthulhu. Aiuto.
Che ci attenda un futuro complicato, mi sembra evidente. Un futuro di incertezze sanitarie, economiche e sociali. Ma credo che a trapanare il tessuto della realtà sia oggi soprattutto l'urlo di una mente collettiva che in un istante riscopre che non tutto si consuma in un istante. Che non tutto può esser fatto scivolare via con un dito dallo schermo.
Nella drammaticità della situazione, forse esiste un'opportunità. Visto che l'unica ginnastica che ci è concessa in questi giorni è proprio quella della mente, potrebbe essere il momento buono per sperimentare nuovi esercizi. Un po' di stretching che aiuti il pensiero a recuperare non tanto il tempo perduto, quanto il perduto senso del tempo. Della sua estensione. Tante altre cose meritano di durare più di un istante. E lo facevano, fino a pochi anni fa, fino a che decidessimo di rimpicciolirle: un album, un libro, un giornale, un hobby, un amico, un amore. Ognuno scelga ciò che sente più suo. Dilatando la loro esistenza, automaticamente si restringerà quella del virus. Quantomeno, la si renderà meno innaturale. E si tornerà a dare un po' di consistenza al presente e di speranza al futuro, vicino o lontano che esso sia.

Nella foto: Parigi, primavera 1921. André Breton con alcuni amici.