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Al di là delle tante polemiche e discussioni sulle fake news di Facebook, esplose all'indomani dell'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, temo che il problema che ci troviamo a fronteggiare – e che sta iniziando a influire in modo sempre più radicale nell'evoluzione della società, della politica, della cultura – sia molto più ampio e profondo di una raccolta di bufale contro Hillary Clinton. È l'idea stessa di poter "trasportare" l'informazione sui social network, coltivata e inseguita negli ultimi cinque anni, che si sta rivelando una mera illusione.
Le fake news sono solo il sintomo di una verità che in molti – anche tra i professionisti e gli addetti ai lavori, schiacciati dal mantra imperativo dell'innovazione – tardano ancora ad accettare: le piattaforme social che hanno conquistato il mondo sull'onda degli smartphone tendono a sfavorire in modo drammatico un tipo di informazione che pretende (a torto o ragione) di basarsi sulla precisione, sulla conoscenza, sull'analisi e sull'attinenza al vero. Quattro qualità non certo ai primi posti delle ragioni che spingono a condividere un contenuto.
Il respiro incalzante dei social network, la dinamica a flusso (contenuti ammassati in modo disordinato, con l'unico scopo di rendere la corrente perpetua), l'annullamento del concetto stesso di fonte («l'ho letto su Facebook», tutto si scioglie nel flusso), il design che impone quasi una reazione istintiva (like-commento-condivisione) a discapito della riflessione, oltre alla natura a filter bubble rafforzata dal marketing (che permette di raggiungere con messaggi pseudo-informativi mirati le categorie di tuo interesse), rendono altamente inefficace qualsiasi forma di comunicazione che non sia legata all'empatia dell'istante, all'ironia/sarcasmo, alla rabbia o al rancore, nonché al mito/obbligo della conversazione collettiva universale. Il ricatto è chiaro: tutto deve essere fonte di emozione e/o discussione. L'alternativa è l'irrilevanza.
Inoltre – e questo è un aspetto che dovrebbe far pensare gli editori – appare ormai evidente come sugli attuali social network sia arduo, se non impossibile, sviluppare un modello sostenibile di business per contenuti giornalistici: i media, come i singoli utenti, finiscono per lavorare per Facebook. Per le ragioni segnalate sopra e per molte altre (dalla facile replicabilità degli slogan al tipo di esperienza che il pubblico ha dimostrato di prediligere in simili ambienti), i social network si offrono invece come impareggiabile terreno di caccia per una nuova famiglia di catalizzatori di traffico, come quelli raccontati sul Guardian o gli ormai proverbiali siti macedoni di bufale presidenziali. L'unico modo per fare concreta concorrenza a queste realtà diventa comportarsi come loro (clickbaiting, gossip, liste e gallerie) e così il giornalismo perde gioco, partita e incontro.
Ma è davvero questo il tipo di panorama informativo a cui vogliamo rassegnarci, con la scrollata di spalle ormai tipica di un'epoca sempre più ringhiante sulla tastiera e rassegnata nei fatti? Se la risposta è no, allora forse è il caso di tenerle ben salde, le spalle. E di rimboccarsi le maniche. Dal punto di vista di chi coltiva il sogno e la perseveranza di fare informazione in modo professionale, è giunto il momento di guardare con realismo al mondo contemporaneo e alla sua dimensione online. Considerare i social network per quel che sono – essenzialmente una forma complessa di intrattenimento – e avviare la costruzione o la ristrutturazione di canali e percorsi alternativi su cui tornare a fornire un'informazione più orientata alla qualità che alla quantità, alla selezione che alla riproduzione, all'utilità pubblica che al superfluo privato. Inventando, investendo, rischiando, sacrificando.
Tutto ciò però può avere successo solo se viene accompagnato da un movimento, ancor più responsabile e coraggioso, da parte del pubblico. Una nuova reazione/predisposizione che passa attraverso a una domanda: siamo soddisfatti del modo in cui leggiamo il mondo, sgranocchiando immagini, titoli e stimoli come se fossero popcorn? Al termine della giornata ci sentiamo persone più informate, competenti, migliori? Vogliamo affidare ai social network il 100% della nostra lettura dell'esistente? O forse dovremmo fermarci un attimo, riflettere, ridurre le immersioni nel flusso continuo, gettare il nostro sguardo altrove, rinunciare a qualche commento a caldo in cambio di risposte più approfondite?
Non si tratta di una banale guerra tra carta e digitale, come si potrebbe ipotizzare dall'immagine d'apertura. Chi scrive, per esempio, rispetto all'adolescenza analogica ricorda con maggior affetto gli anni in cui Internet si presentò al mondo come un'enorme biblioteca accompagnata da un piccolo e vivace bar (e non viceversa). E il punto non è nemmeno il rifiuto dei social, bensì la consapevolezza della loro incapacità di fornire una sana dieta informativa: semplicemente, non sono fatti per questo. Da entrambe le parti, inevitabilmente, ci vuole un pizzico di fatica. Ma l'obiettivo è alto: comprende e va ben oltre il polverone sollevato da una corsa per la Casa Bianca. L'obiettivo è provare a evitare che il mondo contemporaneo, che oggi va di moda definire come post-fattuale, si riveli anche post-umanistico: un limbo dove il progresso dell'uomo - il suo inseguimento della virtù e della conoscenza, per riprendere Dante - si è improvvisamente bloccato, sostituito dal monotono, meccanico, ondeggiante su-e-giù di un dito sullo schermo.