Il mezzo di trasporto su cui si svolge questo post è l'astronave di 2001 Odissea nello Spazio. Non la più celebre, la Discovery One governata dal computer Hal 9000, ma quella che all'inizio del film - dopo il segmento delle scimmie preistoriche - conduce uno dei protagonisti sulla Luna. Un incrocio tra un aereo e uno Shuttle, con poltrone comode e spaziose. Noi siamo seduti su una di queste, ordiniamo un drink alla gentile hostess e ci prepariamo a un viaggio di puro relax. Come su un treno, possiamo guardare fuori dal finestrino e gustarci il panorama; a differenza che su un treno, però, non siamo obbligati a rimanere a Terra. La nostra navetta anzi ha fretta di abbandonare il pianeta, di lasciarsi alle spalle le sue città, le sue montagne, le sue turbolenze. In pochi minuti, l'azzurro del cielo sfuma nel nero dello spazio. È un trascolorare molto simile, eppur speculare, a quello di una discesa negli abissi marini. Laggiù, al trionfo della tenebra si accendono le luci delle creature che abitano le profondità; quassù, fuori dall'assedio di lampioni e neon si liberano le stelle. Dentro l'astronave, intanto, notiamo un paio di cuffie appese al retro del sedile davanti. Le sganciamo dal supporto e le indossiamo. In quel preciso istante, anche l'illuminazione interna dell'abitacolo si attenua. La musica comincia.
A Moon Shaped Pool è il nono album dei Radiohead. Segue di cinque anni, due mesi e venti giorni il precedente The King of Limbs; di poco meno di nove anni, In Rainbows; di oltre quindici, Kid A; di diciannove, Ok Computer. Di ventitré, l'esordio Pablo Honey. E di ventiquattro l'inizio della relazione sentimentale tra il cantante Thom Yorke e Rachel Owens, quella che è terminata nel 2015 e che da molti viene considerata - non a torto, credo - un elemento centrale nei testi, nell'atmosfera, nella natura stessa dell'album. Tuttavia, nel caso di A Moon Shaped Pool è difficile ragionare in termini di pura sequenzialità cronologica. Più che venire dopo i venticinque anni che lo hanno preceduto, il disco li avvolge: nei suoi solchi convivono l'evoluzione di una band, la parabola privata tra un uomo e una donna, i maelstrom pubblici - sociali, tecnologici, culturali - che in due decenni hanno rimescolato il mondo. Tecnicamente, lo si potrebbe definire un greatest hits di brani inediti. Sembra un ossimoro, sono i Radiohead. Quasi tutte le canzoni provengono da altre epoche. La loro scintilla - il monolito nero? - si è accesa a intermittenza: nel 1995 (True Love Waits), nel 2000 (Burn The Witch), nel 2008 (Present Tense), nel 2012 (Identikit)... Ma le canzoni sono sempre rimaste lì - in un angolo, un nastro, una directory, un concerto - mentre altre tracce finivano sui dischi ufficiali. Finché, dopo ripensamenti, rielaborazioni e reinvenzioni, hanno ricevuto la green light e una sera di maggio 2016 sono state presentate al mondo. Inizialmente come MP3, una cinquantina di giorni dopo su CD e LP.
Il supporto non è importante, le cuffie sì. Si tratta di una affermazione che può suonare banale: se per una parete grande ci vuole un grande pennello, per ascoltare della grande musica ci vogliono delle ottime cuffie, no? Per me, lo ammetto, è quasi una primizia. All'alba degli anni '90, forse negli stessi giorni in cui lo sguardo di Rachel incrociava per la prima volta quello di Thom, il sottoscritto inaugurava la sua venticinquennale complicata relazione con la musica con una robusta dieta a base di audiocassette. Nastri copiati e ricopiati. Certo, intorno a Natale, al compleanno e quando la paghetta lo permetteva comparivano i primi CD originali; e le cuffiette - pur primitive - funzionavano già come piccoli propulsori spaziali, nelle gelide mattine d'inverno, schiacciato come una sardinain a crushd tin box sull'autobus per la scuola. Ma il grosso dei suoni che alimentavano i miei sogni di rock'n'roll erano distanti dall'alta fedeltà: gracchianti, inevitabilmente erosi dalle riproduzioni dei nastri, lo-fi prima che il lo-fi diventasse linguaggio. A posteriori, la gloriosa stagione del walkman ha segnato anche i miei anni Zero: quando leggevo le accuse di barbarie rivolte alla qualità dei file MP3, trasecolavo. Che diamine state dicendo? La migliore musica della mia vita l'ho consumata a qualità nettamente peggiore rispetto a quella di qualsiasi file MP3! Ah, il passato. Anzi, i passati. Lasciamo che ruminino sulla Terra. Il presente ci vede seduti sull'astronave e le ottime cuffie che stiamo indossando sono fondamentali, perché solo con un ascolto attento - e il più possibile isolato da tutto il resto - si può davvero comprendere A Moon Shaped Pool.
Vi fornirò la prova con un colpo di scena e alcuni esempi. Il colpo di scena è un dirottamento: la nostra astronave non si ferma sulla Luna. Sfiora il satellite, gli fa ciao con la manina e passa oltre. Perdonatemi, se il titolo del post (o dell'album) vi aveva fatto pensare altrimenti. E perdonami anche tu, vecchio Stanley, se oso spingere questa fragile navicella oltre le Colonne d'Ercole della tua sceneggiatura. Il fatto è che una semplice scampagnata sulla Luna starebbe troppo stretta alle undici tracce di A Moon Shaped Pool. Il viaggio deve sfidare l'intero infinito, perché solo nell'infinito si spiega l'origine dei suoi suoni. Man mano che la nostra astronave divora anni-luce, le canzoni si confondono infatti con il suo percorso: mutano forma, abbandonano le linee guida dei manuali, reagiscono organicamente al paesaggio circostante. Cosa sono quelle goccioline di pianoforte che colano in True Love Waits, se non il lieve tamburellare sulla carlinga di uno sciame di meteoriti? Quali brividi regala il passaggio ravvicinato a Saturno, con i suoi anelli che seghettano e sferragliano la navetta sotto forma della chitarra di Identikit? E al tramonto di Daydreaming, cosa sta provando a dirci - con la sua voce cavernosa - il fantasma dello spazio che abbiamo avuto l'ardire di risvegliare?
Potrei continuare a lungo, elencando esempi nuovi ad ogni ascolto. Ogni attimo è l'incontro con un pianeta, una cometa, un buco nero, un extraterrestre, una nuvola di radiazioni cosmiche e polvere di stelle. A Moon Shaped Pool non rispetta alcun galateo della scrittura musicale, in un caos creativo che riflette il caos esistenziale, emotivo e comunicativo dei nostri tempi. Arrivando quasi a neutralizzarlo, giustificarlo, salvarlo. Forse è questa la marcia in più dell'arte: ricordarci la capacità dell'uomo di generare bellezza dal disordine degli elementi. Non è la prima volta che i Radiohead disarcionano il prevedibile. Da questo punto di vista, la loro acrobazia più sfacciata rimane Kid A. Ma in certi momenti A Moon Shaped Pool riesce a spingersi oltre quei temerari orizzonti. Soprattutto quando gli scarti avvengono all'interno delle singole canzoni, come dimostra uno dei momenti-chiave dell'opera, quello dove essa esplode in tutta la sua vividezza, al preciso rintocco di 2'31" di Identikit. Dopo un paio di strofe a passo lento e un ritornello non indimenticabile, la canzone sembra pronta a ripartire con una nuova strofa. D'altronde, così esige mezzo secolo di recinti pop e rock. Invece, per qualche ragione che prima o poi riuscirò a strappare a Jonny Greenwood, al ritornello segue... il ritornello. Lo stesso, ma differente. A cantare "Broken hearts / make it rain" non è più Thom Yorke, bensì un coro emerso da qualche alieno spaziotempo. Ad accompagnarlo è il lento arpeggiare di un sintetizzatore che non c'entra nulla con i precedenti 150 secondi. Ed è lì, in mezzo a questa inedita replica, che arriva la chitarra. Prima a distanza, quasi come un'imbarcazione che appare e scompare all'orizzonte, secondo il volere delle onde. Quindi sempre più vicina, più concreta, più sferragliante. «Comandante, mi scusi, non siamo un po' troppo vicini a Saturno?».
Anche in questo caso, la lista potrebbe non finire mai. L'iconoclastia dell'album si muove a macchia di leopardo e va dagli archi usati come fondamenta e non come semplice abbellimento (Burn The Witch), al contagio di voci enigmatiche (le eco spettrali che rendono ancor più sublime la già sublime Present Tense), al crescendo di The Numbers che si interrompe proprio nel momento in cui chiunque avrebbe sparato i fuochi d'artificio (una pratica di anticlimax di cui si possono captare antiche avvisaglie già in Creep, dolente inno che chiunque in quei grungeosi anni '90 avrebbe chiuso con un tornado di distorsione, mentre Thom Yorke spense a sussurri). A Moon Shaped Pool è un disco che si nutre di diversità, coerente nella sua radicale disomogeneità (al confronto raccolte come The Bends, Kid A o The King Of Limbs sembrano quasi strutture monolitiche), in cui - forse con un guizzo di umorismo britannico - l'unico elemento davvero lineare è anche quello che sembra sovvertire in modo più plateale la buona norma della moderna produzione discografica: la tracklist in ordine alfabetico. Chi si sognerebbe di pubblicare un album con le canzoni in ordine alfabetico? (Untitled 1, Untitled 2, Untitled 3 e le altre scorciatoie alfanumeriche alla Sigur Rós non valgono...)
C'è un ultimo aspetto in cui A Moon Shaped Pool si distacca dalla stragrande maggioranza della produzione musicale contemporanea. E adesso che il nostro vascello spaziale è arrivato ormai ai confini del sistema solare - senza dar segno di voler invertire la marcia, lui che ne ha facoltà - posso confessare che è quello a cui sono più affezionato. Al contrario di tutto ciò che siamo abituati a consumare oggi, con il cronometro in mano, il dito che freme sullo schermo e il pensiero già a caccia di ciò che viene dopo, questo album sembra concepito per non lasciarti mai. Non vuole stordirti, ma accompagnarti. Si fa riascoltare e riascoltare, sfuggendo non solo alla forza di gravità terrestre ma anche agli obblighi e ai ritmi indiavolati del newsfeed mentale. Rappresenta qualcosa che, almeno al sottoscritto, capita di incontrare sempre più raramente: un'emozione che dura più di un giorno. Qualcuno potrebbe obiettare che è merito (o colpa) della storica affinità personale con i Radiohead. Può darsi, ma solo in parte: The King Of Limbs aveva avuto un effetto del tutto opposto, respingente, che dura ancora oggi. Uscito in una sera di inizio maggio, A Moon Shaped Pool mi spinge ancora ad ascoltarlo (e a scriverne) in un pomeriggio di fine agosto. Chissà, forse questo XXI secolo non è arido come lo dipingiamo.
Il supporto non è importante, le cuffie sì. Si tratta di una affermazione che può suonare banale: se per una parete grande ci vuole un grande pennello, per ascoltare della grande musica ci vogliono delle ottime cuffie, no? Per me, lo ammetto, è quasi una primizia. All'alba degli anni '90, forse negli stessi giorni in cui lo sguardo di Rachel incrociava per la prima volta quello di Thom, il sottoscritto inaugurava la sua venticinquennale complicata relazione con la musica con una robusta dieta a base di audiocassette. Nastri copiati e ricopiati. Certo, intorno a Natale, al compleanno e quando la paghetta lo permetteva comparivano i primi CD originali; e le cuffiette - pur primitive - funzionavano già come piccoli propulsori spaziali, nelle gelide mattine d'inverno, schiacciato come una sardina
Vi fornirò la prova con un colpo di scena e alcuni esempi. Il colpo di scena è un dirottamento: la nostra astronave non si ferma sulla Luna. Sfiora il satellite, gli fa ciao con la manina e passa oltre. Perdonatemi, se il titolo del post (o dell'album) vi aveva fatto pensare altrimenti. E perdonami anche tu, vecchio Stanley, se oso spingere questa fragile navicella oltre le Colonne d'Ercole della tua sceneggiatura. Il fatto è che una semplice scampagnata sulla Luna starebbe troppo stretta alle undici tracce di A Moon Shaped Pool. Il viaggio deve sfidare l'intero infinito, perché solo nell'infinito si spiega l'origine dei suoi suoni. Man mano che la nostra astronave divora anni-luce, le canzoni si confondono infatti con il suo percorso: mutano forma, abbandonano le linee guida dei manuali, reagiscono organicamente al paesaggio circostante. Cosa sono quelle goccioline di pianoforte che colano in True Love Waits, se non il lieve tamburellare sulla carlinga di uno sciame di meteoriti? Quali brividi regala il passaggio ravvicinato a Saturno, con i suoi anelli che seghettano e sferragliano la navetta sotto forma della chitarra di Identikit? E al tramonto di Daydreaming, cosa sta provando a dirci - con la sua voce cavernosa - il fantasma dello spazio che abbiamo avuto l'ardire di risvegliare?
Potrei continuare a lungo, elencando esempi nuovi ad ogni ascolto. Ogni attimo è l'incontro con un pianeta, una cometa, un buco nero, un extraterrestre, una nuvola di radiazioni cosmiche e polvere di stelle. A Moon Shaped Pool non rispetta alcun galateo della scrittura musicale, in un caos creativo che riflette il caos esistenziale, emotivo e comunicativo dei nostri tempi. Arrivando quasi a neutralizzarlo, giustificarlo, salvarlo. Forse è questa la marcia in più dell'arte: ricordarci la capacità dell'uomo di generare bellezza dal disordine degli elementi. Non è la prima volta che i Radiohead disarcionano il prevedibile. Da questo punto di vista, la loro acrobazia più sfacciata rimane Kid A. Ma in certi momenti A Moon Shaped Pool riesce a spingersi oltre quei temerari orizzonti. Soprattutto quando gli scarti avvengono all'interno delle singole canzoni, come dimostra uno dei momenti-chiave dell'opera, quello dove essa esplode in tutta la sua vividezza, al preciso rintocco di 2'31" di Identikit. Dopo un paio di strofe a passo lento e un ritornello non indimenticabile, la canzone sembra pronta a ripartire con una nuova strofa. D'altronde, così esige mezzo secolo di recinti pop e rock. Invece, per qualche ragione che prima o poi riuscirò a strappare a Jonny Greenwood, al ritornello segue... il ritornello. Lo stesso, ma differente. A cantare "Broken hearts / make it rain" non è più Thom Yorke, bensì un coro emerso da qualche alieno spaziotempo. Ad accompagnarlo è il lento arpeggiare di un sintetizzatore che non c'entra nulla con i precedenti 150 secondi. Ed è lì, in mezzo a questa inedita replica, che arriva la chitarra. Prima a distanza, quasi come un'imbarcazione che appare e scompare all'orizzonte, secondo il volere delle onde. Quindi sempre più vicina, più concreta, più sferragliante. «Comandante, mi scusi, non siamo un po' troppo vicini a Saturno?».
Anche in questo caso, la lista potrebbe non finire mai. L'iconoclastia dell'album si muove a macchia di leopardo e va dagli archi usati come fondamenta e non come semplice abbellimento (Burn The Witch), al contagio di voci enigmatiche (le eco spettrali che rendono ancor più sublime la già sublime Present Tense), al crescendo di The Numbers che si interrompe proprio nel momento in cui chiunque avrebbe sparato i fuochi d'artificio (una pratica di anticlimax di cui si possono captare antiche avvisaglie già in Creep, dolente inno che chiunque in quei grungeosi anni '90 avrebbe chiuso con un tornado di distorsione, mentre Thom Yorke spense a sussurri). A Moon Shaped Pool è un disco che si nutre di diversità, coerente nella sua radicale disomogeneità (al confronto raccolte come The Bends, Kid A o The King Of Limbs sembrano quasi strutture monolitiche), in cui - forse con un guizzo di umorismo britannico - l'unico elemento davvero lineare è anche quello che sembra sovvertire in modo più plateale la buona norma della moderna produzione discografica: la tracklist in ordine alfabetico. Chi si sognerebbe di pubblicare un album con le canzoni in ordine alfabetico? (Untitled 1, Untitled 2, Untitled 3 e le altre scorciatoie alfanumeriche alla Sigur Rós non valgono...)
C'è un ultimo aspetto in cui A Moon Shaped Pool si distacca dalla stragrande maggioranza della produzione musicale contemporanea. E adesso che il nostro vascello spaziale è arrivato ormai ai confini del sistema solare - senza dar segno di voler invertire la marcia, lui che ne ha facoltà - posso confessare che è quello a cui sono più affezionato. Al contrario di tutto ciò che siamo abituati a consumare oggi, con il cronometro in mano, il dito che freme sullo schermo e il pensiero già a caccia di ciò che viene dopo, questo album sembra concepito per non lasciarti mai. Non vuole stordirti, ma accompagnarti. Si fa riascoltare e riascoltare, sfuggendo non solo alla forza di gravità terrestre ma anche agli obblighi e ai ritmi indiavolati del newsfeed mentale. Rappresenta qualcosa che, almeno al sottoscritto, capita di incontrare sempre più raramente: un'emozione che dura più di un giorno. Qualcuno potrebbe obiettare che è merito (o colpa) della storica affinità personale con i Radiohead. Può darsi, ma solo in parte: The King Of Limbs aveva avuto un effetto del tutto opposto, respingente, che dura ancora oggi. Uscito in una sera di inizio maggio, A Moon Shaped Pool mi spinge ancora ad ascoltarlo (e a scriverne) in un pomeriggio di fine agosto. Chissà, forse questo XXI secolo non è arido come lo dipingiamo.