domenica, gennaio 08, 2017

Run The Jewels - Run The Jewels 3


Il premio al primo brivido musicale dell'anno va di nuovo a un sassofono. Dodici mesi fa era stato quello di Donny McCaslin, catalizzatore di magia e mistero sulla Blackstar di David Bowie. Quest'anno è quello - molto più contenuto, ma sempre efficace - che Kamasi Washington regala a Thursday in the Danger Room, penultimo brano del terzo album dei Run The Jewels. Un disco con cui il duo rap statunitense si mostra fedele alla linea ledzeppeliniana dei titoli (dopo Run The Jewels e Run The Jewels 2, tocca a Run The Jewels 3) e nel quale, tra le altre collaborazioni, spiccano anche quelle di Danny Brown, Tunde Adebimpe (TV on the Radio) e Zack De La Rocha (in chiusura di album, quasi una reprise della Close The Eyes (And Run To Fuck) del 2014).

A voler essere precisi, RTJ3 non è del 2017. I Run The Jewels si sono travestiti da Babbi Natale e lo hanno distribuito il 25 dicembre, sorprendendo per la tempistica (con tanti saluti alle classifiche di fine anno, già pubblicate da chiunque) ma non per la distribuzione: come i precedenti, l'album è in free download sul sito della band. In un certo senso, però, si è trattato di un'anteprima: la data di uscita ufficiale (nei negozi) è il 13 gennaio. E per chi scrive è stato il primo ascolto serio dell'anno, vincendo al fotofinish la selezione nei confronti dell'altra grossa release festiva (Reflection di Brian Eno, distribuito il 1° gennaio, qui se ne parlerà forse la prossima settimana). 

Thursday in the Danger Room è un brano abbastanza insolito per i Run The Jewels. Lento, riflessivo, quasi melodico, con la rabbia riposta per un attimo nel cassetto, per lasciare spazio a una riflessione sulla morte (e sul rapporto con essa, quando viene a colpire persone care). Per il resto, il duo si conferma tra le voci più agguerrite e urticanti nel ricco panorama del post-rap contemporaneo. Laddove Kendrick Lamar gioca con il jazz, Chance The Rapper con il gospel e Frank Ocean con tutto il resto, i Run The Jewels continuano a mettere parole nei loro cannoni. E a tenerne ben alto il volume. È «la colonna sonora delle rivolte del futuro», scrive Pitchfork; «i Gladiatori che si oppongono a tutti i Cesari”, si autodefiniscono loro in A Report To The Shareholders/Kill The Masters; «i Rage Against The Machine del nostro tempo», aggiungo io, pigramente finalizzando l'imbeccata dei cammeo di Zack De La Rocha.

I Run The Jewels: El-P e Killer Mike (fonte Pitchfork)

Sonorità sempre ruvide, ma bpm non esasperati caratterizzano anche Thieves! (Screamed The Ghost)2100: in generale, l'impressione è che i Run The Jewels ripropongano la ricetta vincente dei primi due album, sopperendo all'inevitabile calo dell'effetto-novità con un respiro più ampio nella costruzione dei brani e degli arrangiamenti. Sarà interessante vederli dal vivo, sempre che non siano protagonisti di clash sanguinosi con altri artisti, al prossimo Primavera Sound di Barcellona. Un festival che, schierando anche gente come Frank Ocean e Solange, continua nel suo progressivo riallineamento verso gli orizzonti più innovativi e interessanti della musica contemporanea. Perché, come scrive Carlo Bordone, «piaccia o meno, è lì – a cavallo tra r&b, elettronica, hip hop, neo-soul – che si stanno ri-formulando le concezioni stesse di canzone, produzione, ritmi, persino di “disco”». Il rock, invece, continua ad ansimare. Mentre i Radiohead cercano la medicina nell'infinito, per il 2017 il sottoscritto incrocia le dita e punta sul ritorno degli Arcade Fire (anche loro in cartellone a giugno in Catalogna).

Con il 2017 non è invece cambiato il mio atteggiamento da straniero in hip hop straniero. Di fronte ad album come Run The Jewels 3, finisco sempre per abdicare e concentrarmi sulla parte musicale: gli esperimenti in studio, le alchimie tra generi, i sassofoni degli ospiti, eccetera. Ma non dovrebbero contare di più i testi? Ahimè, quello rimane uno scoglio. A orecchie calibrate sui tempi e i modi del rock, le invettive dei Run The Jewels suonano ancora come un linguaggio arcano, alieno, un ingrediente che solo se si sposa bene con la musica (come accade in RTJ3), riesce a trasmettere un senso di ribellione che rimane comunque più sonoro che letterale. Più vibrazioni che sinapsi. Al punto che l'unica vera fessura nel mio ponte levatoio mentale, il disco la trova in modo davvero ameno: snocciolando in Don't Get Captured titoli di vecchi film horror come La piccola bottega degli orrori, Il fantasma dell'opera o quella La casa dei fantasmi su cui giusto qualche mese fa giocavo al piccolo editor. Improvvisa, erompe l'empatia. Sono pazze queste sinapsi.