Non siamo nemmeno arrivati alla boa di metà 2016, eppure anche quest'anno Madonna Musica ha già svolto egregiamente il suo compito. Che ormai non è più salvar vite dalla dannazione o ripulir anime dalle incrostazioni – siamo realisti – ma per lo meno sporgerti una cannuccia con cui interrompere l'apnea, sfuggendo al monotono flusso dell'identico e tornando a respirare un po' d'aria fresca. Il bello di questa cannuccia, il marchio impossibile da contraffare, è la sua natura camaleontica. Per esempio, quest'anno a chi scrive si è presentata con l'inedita forma di sassofono. Come quello che all'alba di gennaio ha attraversato Blackstar, l'ultimo gentile regalo di David Bowie all'umanità (un disco che continua a trasmettere pulsanti segnali di vita aliena, anche oggi che lo si può ascoltare al riparo dalle interferenze del commiato). O come quello che, qualche mese più tardi, è selvaggiamente decollato dai solchi di The Hope Six Demolition Project di PJ Harvey.
«Il problema di PJ Harvey è che non ha le canzoni». Attorno a questa sentenza ruotano molte delle conversazioni avute con un amico a proposito dell'artista inglese e della sua musica. Dove il termine canzone viene utilizzato in una variante criticamente corretta di successo, evergreen, hit: non il tormentone estivo, la macarena che tarantola sulla spiaggia, ma la Like a Rolling Stone o la A Day in the Life scolpite nella pietra. In effetti, non viene naturale citare a memoria il titolo di una vecchia canzone di PJ Harvey. Così come è facile prevedere che nessun brano di The Hope Six Demolition Project entrerà in un ipotetico canzoniere del XXI secolo (sempre che abbia ancora senso parlare di un canzoniere nel XXI secolo...). Ed è giusto che sia così, perché non credo sia quello il suo compito/obiettivo e, forse, nemmeno l'aspirazione a cui deve puntare la miglior musica del nostro tempo. Qualche riga più su si accenna al bisogno di un break dalla banalità del presente. Ecco, penso che oggi sia di gran lunga più prezioso e auspicabile un album in grado di conquistarti con il suo spessore, la sua ardua penetrabilità, i suoi stratificati livelli (altri elementi in comune tra il Project di PJ e la nera stella di Bowie), rispetto a una canzone basata sull'immediato appeal di un ritornello. Guardatevi attorno: nel 2016 tutti sanguisugano la nostra attenzione con uncini flash; viviamo di facili ritornelli o presunti tali; sgranocchiamo seduzioni istantanee come popcorn al cinema. La musica leggera si chiamava così perché aiutava a sopportare una vita pesante. Una musica un po' più pesante potrebbe essere una benedizione per sfuggire all'obbligo di un'esistenza leggera, eterea, impalpabile?
Pesante, in questo senso bizzarramente positivo del termine (complesso, profondo, tangibile...), è di certo The Hope Six Demolition Project. Lo capisci fin dall'inizio, da quei cinque accordi sganciati come bombe da The Ministry of Defence – dopo i due minuti musicalmente più pop di The Community of Hope – che ti catapultano subito in una realtà fatta di vetri rotti, siringhe, fantasmi, macerie di pietra e di carne. Ascolto dopo ascolto, The Ministry of Defence diventa “canzone” a tutti gli effetti. Per essere tale non ha bisogno di un ritornello che prenda in ostaggio l'esiguo spazio rimasto disponibile nella memoria. Bastano il suo ruggire marziale, quel sax che grattugia note sullo sfondo, i cori che sembrano salire direttamente dalle braci della storia (“They've sprayed graffiti in arabic...”, “Broken glass, a white jawbone...”, “Those are the children's cries from the dark...”) per sfociare nella profezia conclusiva: “This is how the world will end”.
Come si sarà intuito, se la musica piange i testi di certo non ridono. Il sole dell'avvenire prova a far capolino in un paio di circostanze, per esempio quando Polly si congeda in A Line in the Sand con il falsetto di “I believe we have a future / To do something good”. Ma si tratta di raggi isolati, che non hanno nemmeno il tempo di trasmettere un po' di calore prima che qualche nuvolaccia cattiva arrivi puntuale a dissolverli (altri versi di A Line in the Sand recitano: “bad overwhelms the good”, “I saw people kill each other just to get there first”). La natura e la ragione di questo tono risiedono nel progetto stesso dell'opera, resoconto in parole, musica e immagini dei viaggi condotti tra il 2011 e il 2014 dalla cantante e dal fotografo Seamus Murphy in Kosovo, Afghanistan e a Washington. Tre luoghi distanti e differenti, la cui apparente inconciliabilità ha attirato gli affondi più convinti della critica anglosassone (a cui The Hope Six Demolition Project è piaciuto, ma senza troppo entusiasmo). Come se dietro a una generica rappresentazione di paesaggi tra l'homeless e l'hopeless, PJ Harvey non fosse riuscita a mantenere un fuoco preciso. Un fuoco che invece a mio parere ha il contorno ben definito del canto delle periferie. Periferie geografiche di facile collocazione, soprattutto per occhi occidentali: degli USA (i quartieri più degradati di una città storicamente e costituzionalmente ai margini come Washington D.C.), dell'Europa (il Kosovo) e del mondo (l'Afghanistan). Ma anche periferie esistenziali, metafora di quella paura da fine impero colonialista che si sta iniziando a diffondere a macchia d'olio, contagiando anche isole (nazioni, categorie sociali/professionali, persone) un tempo ritenute felici. La paura di essere lasciati indietro, spinti fuori dalla cornice: da un nuovo muro, dall'esplosione di un'epidemia o di un kamikaze, o anche solo attraverso processi di trasformazione urbana sgradevoli fin dalla parola scelta per identificarli (gentrificazione).
Madonna Musica però ha un pregio. Se è alimentata dal mistero dell'Arte, riesce a flirtare con l'oscurità, con la miseria, persino con la pesantezza in un modo tale da restituirti vibrazioni di pura energia. Ci sono tante gemme preziose in The Hope Six Demolition Project, molte delle quali ti sfidano a superare iniziali momenti di diffidenza (risalendo il corso di River Anacostia, per la prima volta chi scrive è entrato in contatto con il mondo degli spiritual senza scappare a gambe levate...). C'è una ricerca musicale che nel complesso sembra più orientata verso la sponda americana dell'Atlantico, ma che si fonda anche sul contributo di due musicisti italiani, Enrico Gabrielli e Alessandro Stafana, ospiti in un paio di brani e reclutati per l'imminente tour mondiale (assieme a consueti sodali come Mick Harvey e John Parish). C'è soprattutto quel desiderio, che si ripresenta anche adesso, agli sgoccioli della stesura di questo post, di tornare subito ad ascoltarlo.