giovedì, febbraio 18, 2016

Le vite degli altri (1998-2016)


C'è una notevole progressione voyeuristico-tecnologica che ci porta da The Truman Show al social web, passando attraverso il Grande Fratello. The Truman Show è un film del 1998, diretto da Peter Weir e interpretato da Jim Carrey, in cui si immagina un reality televisivo costruito attorno alla figura di Truman Burbank. Senza saperlo, fin dalla nascita Truman è stato seguito dalle telecamere e la sua vita è confinata all'interno di un gigantesco set dove tutto è fittizio (parenti, amici, colleghi, luoghi) tranne - come suggerisce il demiurgo dello show Christof (Ed Harris) - Truman stesso. Sebbene il film si ispiri alla nascente/crescente fascinazione collettiva dell'epoca per i programmi reality, siamo ancora di fronte a uno spettacolo puramente cinematografico. Nel film, il pubblico che guarda la tv è in realtà un comprimario: quasi una stampella per sorreggere una narrazione tutta basata sul protagonista e su un discorso un po' alla Philip K. Dick (o, visto l'anno d'uscita del film, alla Matrix) sull'artificialità delle nostre vite e della realtà che ci circonda. Numericamente parlando, in Truman Show il protagonista è solo uno. Da un punto di vista tecnologico/espressivo, il mezzo utilizzato per raccontare la sua storia è il cinema (forma d'intrattenimento che, nella sua incarnazione originaria, richiede al pubblico di uscire dalle proprie case e raccogliersi in un luogo circoscritto e determinato). Anche la durata è limitata: nella finzione della vita di Truman sono circa centomila giorni, nella nostra fruizione i cento minuti del film. La costruzione narrativa e il distacco dalla nostra realtà sono totali: The Truman Show è un'opera di finzione al 100%, confezionata da un team di straordinari professionisti come il regista Peter Weir (Picnic ad Hanging Rock, L'attimo fuggente), lo sceneggiatore Andrew Niccol (fresco reduce dalla regia di Gattaca), l'attore Jim Carrey (all'epoca famoso soprattutto per i film demenziali, che sorprese il pubblico con un ruolo a tutti gli effetti drammatico), con un simbolismo evidente - persino plateale - fin dai nomi scelti: Tru(e)man, Christof, il paesino Seaheaven, la barca Santa Maria. 

Il 14 settembre del 2000, cioè più o meno un paio d'anni dopo l'uscita nei cinema di The Truman Show, il pubblico italiano scopre direttamente la "realtà" dei reality show. Quella sera viene trasmessa su Canale 5 la prima puntata della prima edizione del Grande Fratello. Rispetto a Truman, la progressione è evidente. Su tutti i piani. Dal punto di vista numerico, non c'è più un unico protagonista - attorniato da attori/complici - ma un gruppo di dieci persone. Si creano quindi delle relazioni sociali tra una piccola comunità di individui che partono allo stesso livello (non a caso, diversi commentatori ragionarono sul suo valore di esperimento sociale). Per quanto riguarda tecnologia e canale di distribuzione, il mezzo cinematografico viene sostituito da quello televisivo. Dunque, rispetto a The Truman Show, si entra direttamente nelle case degli spettatori. Anche la durata si espande: non più cento minuti, ma novantanove giorni (per i protagonisti) e una serie di appuntamenti settimanali in prima serata per i telespettatori. Come nella finzione ipotizzata dal film di Peter Weir, c'è però anche un'opzione - per gli abbonati alla pay tv - di seguire il programma 24 ore su 24. All'incremento dell'invasività del programma, corrisponde un aumento della sua opacità sull'asse finzione/realtà. Sebbene si sospetti fin da subito l'esistenza di autori incaricati di indirizzare gli avvenimenti nella casa dove sono rinchiusi i protagonisti, l'idea alla base del programma è quella di presentare al pubblico lo spettacolo della vita naturale di persone normali. Persone che potremmo essere noi. Se il volto di Jim Carrey creava automaticamente un effetto di distacco, quelli dello studente Pietro Tarricone, della bagnina Cristina Plevani o del pizzaiolo Salvo Veneziano generano nello spettatore televisivo un istantaneo effetto-specchio. Ma la presenza delle telecamere - di cui i protagonisti del programma, a differenza di Truman, sono perfettamente consapevoli - fa sì che il presunto gioco della realtà sia inevitabilmente contaminato dall'artificio. Il corto circuito è evidente: l'esperimento sociale non avviene tanto nella casa, quanto nel rapporto con gli spettatori a casa.

Facciamo un salto di quindici anni e arriviamo al presente, ai social network e in particolare a quello più popolare al mondo: Facebook. Di nuovo, siamo testimoni di una progressione a tutti i livelli, avvenuta a ritmi ancora più sostenuti di quella precedente. Per quanto riguarda i numeri, si balza improvvisamente dalla monarchia (Truman) e dall'oligarchia (i dieci del Grande Fratello) a una democrazia universale. Non solo il cast dello show adesso conta più di un miliardo di co-protagonisti (chiunque pubblichi/condivida qualcosa di personale) ma questi attori provengono da tutto il mondo (non più un villaggio come Seaheaven, né un paese come l'Italia: altra progressione) e non c'è più nemmeno bisogno di fare il minimo sforzo di identificazione: i protagonisti siamo davvero noi, i nostri parenti, i nostri amici di prima generazione e i nostri amici acquisiti sul web. Tecnologicamente parlando, si è passati al network digitale. Prima era venuto meno l'obbligo di andare al cinema, adesso anche quello di trovarsi davanti a un televisore: basta avere uno smartphone in mano per essere costantemente aggiornati sulle vite degli altri. Se già il Grande Fratello in versione pay tv poteva contare su una portata temporale di 24 ore su 24, con Facebook oggi si ragiona su un dominio del tutto nuovo: la totalità spaziotemporale. Lo spettacolo non va in scena solo in ogni istante, ma anche in ogni luogo. In quanto al vecchio corto circuito tra realtà e finzione, anche quello esplode in un vortice di opacità perfetta: le persone di cui scandagliamo la vita sulle bacheche dei social sono in carne e ossa, vediamo i loro volti, i loro animali domestici, i loro viaggi, i loro pensieri. Ma al tempo stesso, non sono loro. La consapevolezza della telecamera si è trasformata nella consapevolezza del selfie: noi tutti costruiamo una nuova identità da social network, che - a volte inconsciamente, più spesso scientemente - si distacca da quella che potremmo definire come naturale. Sotto molti aspetti, l'ambiente social contemporaneo rappresenta dunque una potentissima variazione dell'ipotesi - agli occhi dell'uomo del XXI secolo, ormai quasi umile - avanzata in e da The Truman Show. Un immenso spettacolo voyeuristico/tecnologico diffuso, di cui - come esige la dottrina del 2.0 - non siamo più semplici spettatori. 

Abbastanza curiosamente e altrettanto imprevedibilmente, questo ragionamento è scaturito dalla visione del surreale The Boy with a Camera for a Face. Scritto e diretto nel 2013 da Spencer Brown, premiato a diversi festival cinematografici, il cortometraggio è stato reso disponibile a inizio anno su Vimeo e lo trovate qui sotto (in versione originale, in inglese, a metà strada tra il musical e la poesia). Al suo interno si mescolano molti elementi della tesi che ho provato a esporre nelle righe precedenti. C'è la pura componente narrativa di The Truman Show, c'è la ricerca spasmodica della vita degli altri che ritorna sull'intero arco 1998-2016, c'è l'inevitabile contaminazione tra realtà e finzione, vita genuina e vita artificiale. Inoltre, in modo molto più diretto che in The Truman Show (che da buon film hollywoodiano evita di prendere di mira esplicitamente il proprio pubblico) si pone l'accento sui rischi che un'ulteriore espansione di questo trend potrebbe comportare: la progressiva trasformazione in spettatori-zombi delle vite altrui. Infine, pur passando da vie traverse e vintage (la testa del protagonista non è sostituita da un iPhone, ma da una vecchia macchina fotografica), l'autore apre anche una parentesi su un'altra evoluzione antropotecnologica del secolo digitale: il nostro rapporto con la cattura e l'archiviazione dell'immagine. Dell'istante. Di qualsiasi istante.