martedì, maggio 05, 2015

Scripta volant, verba manent

Fonte: Curious Apes Publishing
Ci sono alcuni aspetti in cui la scrittura digitale ha davvero ribaltato abitudini e convenzioni secolari. Prendiamo il detto "verba volant, scripta manent". Secondo Wikipedia si tratta di un "antico proverbio che trae origine da un discorso di Caio Tito al senato romano" che "insinua la prudenza nello scrivere, perché, se le parole facilmente si dimenticano, gli scritti possono sempre formare documenti incontrovertibili". Non ho idea se l'origine del proverbio sia corretta (l'unica fonte è un libro pubblicato dalla Presses Universitaires de Rennes nel 2004, non ho trovato altre conferme), certo è che il suo significato è stato sostanzialmente valido per secoli, fino all'avvento della scrittura digitale. Non è un caso se nel commercio in molti paesi è diventata abitudine basarsi su contratti scritti e firmati, senza accontentarsi di un semplice accordo verbale.

Con il digitale, il discorso si è fatto più complicato. Innanzitutto, gli scripta non manent più come una volta. I testi non sono più scolpiti e immutabili fino alla scomparsa del supporto che li conserva (pietra, pergamena, papiro, carta...), ma - se basati sulla liquida sequenza di 0 e 1 - possono venire facilmente modificati e cancellati. Nel mondo del giornalismo questo ha comportato novità positive (si possono correggere errori, imprecisioni, refusi, in un'ottica di ecologia dell'informazione) e pericolose insidie (non tutti i siti segnalano chiaramente le correzioni significative apportate agli articoli). La possibilità di intervenire in un secondo tempo su un testo già pubblicato ha senza dubbio contribuito anche alla diffusione di un'abitudine non proprio ortodossa, ma sempre più comune nella produzione di contenuti online: il "prima pubblico, poi correggo", figlio di un'epoca in cui si tende a fare le corse per battere sul tempo la concorrenza e accaparrarsi la prima ondata di clic/condivisioni di una notizia. La volatilizzazione degli scritti non va però considerata solo per i suoi effetti spiacevoli o contraddittori: ha reso possibile anche la nascita di creature meravigliose come Wikipedia, che proprio nella sua capacità di aggiornamento continuo trova una delle sue forze più innovative e radicali.

Qualcosa di interessante, in direzione esattamente opposta, è avvenuto anche nel terreno dei verba. Già in parte ingabbiati dall'invenzione di tecnologie di registrazione audio-video, con la diffusione dei social network sono stati sottoposti a un processo di cristallizzazione nel tempo che ha portato alla conservazione di miliardi di parole che in passato sarebbero scomparse nel nulla, un secondo dopo essere state pronunciate. Pensiamo a tutti i commenti, in particolare a quelli più istintivi, che riempiono le timeline e le bacheche di Twitter, Facebook, YouTube e degli altri social media. In molti casi si tratta del corrispettivo digitale delle discussioni da bar: sul calcio, sul gossip, sulla politica, sul festival di Sanremo (oggi: X Factor e Masterchef). Eppure, tranne nei casi in cui l'autore decida di cancellarle o in rari servizi (Snapchat), nell'universo digitale tutte queste parole tendono a rimanere nel tempo. Di certo nascoste sotto il peso dei successivi tweet, status e commenti, ma sempre pronte a tornare a galla. 

È uno dei tanti, curiosi e spiazzanti ribaltamenti che la scrittura, la comunicazione e in fondo l'intera società hanno incontrato a partire dalla fine del ventesimo secolo.