Negli ultimi mesi mi è capitato più volte di confrontarmi con opere in cui si racconta la perdita di una persona cara, e l'effetto che questa ha generato in chi l'ha subita. È successo riascoltando Tomorrow, vecchia canzone degli U2 in cui Bono “inconsciamente” descrive il funerale della madre (“Outside, somebody's outside / Somebody's knocking at the door / There's a black car parked at the side of the road”); o scivolando tra le pagine di Dimentica il mio nome, la graphic novel in cui Zerocalcare racconta la scomparsa della nonna, anche sconfinando nei reami del fantastico.
Carrie & Lowell di Sufjan Stevens aggiunge un tassello particolarmente importante a questo mosaico del dolore privato a uso pubblico: l'intero album è infatti dedicato dall'artista americano al patrigno (con cui ha fondato e che dirige l'etichetta discografica Asthmatic Kitty) e soprattutto alla madre, scomparsa alla fine del 2012. Immediato, già al primo ascolto, si accende un corto circuito: quello dell'intima sofferenza inevitabilmente destinata a finire – per scelta consapevole – nel vortice del consumo culturale moderno, sballottata in mezzo a un miliardo di altri contenuti, smozzicata, assorbita distrattamente, filtrata dalle cuffiette, costretta a infilarsi in un interstizio di quel poco tempo che ci è concesso per conoscere il mondo e i suoi (ris)volti.
Se guardando la foto che fa da copertina all'album e che apre questo post, anche voi non siete riusciti a trattenere una reazione incuriosita, accompagnata da un pensiero buffo (“mamma mia, che è sta roba?”), allora forse potete comprendere quello che intendo. Questo infinito ciondolare mediatico, narrativo ed emotivo tra sofferenza e ironia, tra sacro e profano, tra massimi sistemi/sentimenti e normale esistenza quotidiana. È una sensazione che è tornata spesso a chi scrive, ascoltando le undici canzoni che compongono l'album, quasi tutte sussurrate, minimali, costruite in buona parte sull'accostamento tra la voce di Stevens e l'accompagnamento di una chitarra o di un pianoforte.
Sufjan Stevens nel suo studio di Brooklyn (tratta da una rara e lunga intervista su Pitchfork) |
Se l'effetto complessivo di Carrie & Lowell è quello di un disco scarno fino al midollo (soprattutto in confronto ad alcuni lavori precedenti di Sufjan Stevens), non arriverei però a definirlo lo-fi. Ovunque emerge un'attenta cura degli arrangiamenti, dei suoni, delle atmosfere. Con piccoli inserti e soluzioni inattese che spesso sono le vere stairway in grado di trasportare la musica verso livelli metafisici: penso alla tastiera che si accende improvvisamente poco dopo la metà di Should Have Known Better o a quella che fa da controcanto ai momenti più belli di All of Me Wants All of You. Piccole tracce di paradiso che dimostrano come non sia solo il diavolo a stare nei dettagli.
Ma anche in paradiso evidentemente non si sta troppo bene. In Carrie & Lowell ci sono schegge che penetrano a fondo nell'anima (“What's the point of singing song / If they'll never even hear you”) e i paragoni più frequenti nelle recensioni sono a Elliott Smith, Nick Drake o album come For Emma, Forever Ago di Bon Iver: non proprio inni alla gioia. D'altronde, anche il rapporto tra Sufjan e Carrie si è consumato ben lontano dal Mulino Bianco: lei lo ha abbandonato da piccolo, entrando in un tunnel di depressione, schizofrenia e alcolismo. Lui l'ha persa, parzialmente ritrovata (anche tramite Lowell), poi di nuovo persa, infine (forse) di nuovo ritrovata grazie a questo album, costruito sulle lacrime e i sospiri della crisi esistenziale e della consapevolezza del tempo che passa, con lancette-bisturi chirurgiche nel dilatare il passato e ridurre il futuro. Eppure, forse anche per il primo contatto un po' titubante (per le considerazioni sul rapporto tra pubblico e privato, sofferenza ed esposizione della stessa, ma anche per l'impossibilità di individuare con certezza in un'opera d'arte il confine tra realtà e narrazione), l'ascolto di Carrie & Lowell alla fine non è devastante. Sarà per il potere salvifico della musica, sarà per l'ispirazione dell'artista e la sua capacità di creare melodie pressoché perfette anche solo arpeggiando due accordi, ma ciò che l'album restituisce è una sorta di dolcezza crepuscolare. Quasi come una piazzola di sosta in cui fermarsi al tramonto, dopo lunghe ore di guida, per rilassarsi guardando il sole che scende all'orizzonte, prima di rimettersi in viaggio.
Canzoni preferite: Should Have Known Better, All of Me Wants All of You, The Only Thing
In ascolto: Short Movie (Laura Marling)
1. Black Messiah (D'Angelo)
2. Run The Jewels 2 (Run The Jewels)
3. Soused (Scott Walker)
4. Panda Bear Meets The Grim Reaper (Panda Bear)
5. Girls In Peacetime Want To Dance (Belle & Sebastian)
6. No Cities To Love (Sleater-Kinney)
7. Endkadenz vol. 1 (Verdena)
8. Natalie Prass (Natalie Prass)
9. I Love You, Honeybear (Father John Misty)
10. Viet Cong (Viet Cong)
11. Chasing Yesterday (Noel Gallagher's High Flying Birds)
12. What a Terrible World, What a Beautiful World (The Decemberists)
13. To Pimp a Butterfly (Kendrick Lamar)
14. Carrie & Lowell (Sufjan Stevens)