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“Ciò che Twitter sta facendo è verificare quanto dolore extra siamo disposti a tollerare”. Così Vlad Savov commenta su The Verge l'ultima novità presentata dal servizio americano: la decisione di mostrare sulla timeline anche i tweet di utenti che non stiamo seguendo ("i più popolari"). Messaggi di cui - in linea di massima - non ce ne frega nulla.
Per ora, si tratta di un esperimento. Limitato a pochi utenti. Un test, appunto. Twitter valuterà la reazione degli utenti sottoposti alla prova e – se non vedrà rischi di rivoluzione – passerà probabilmente alla fase due: l'implementazione universale della novità.
Non è una bella cosa. Significa che le timeline si riempiranno di tweet a cui non siamo interessati, ma che non potremo eliminare. Qualcosa di simile ai promoted tweets, i cinguettii sponsorizzati che già adesso si alternano – non troppo ingombranti, ma inamovibili – ai contenuti degli altri utenti. In una direzione ben conosciuta a chi è su Facebook.
Rumore extra per tutti. O per usare le parole di Savov, dolore extra. Perché il rumore sta diventando una vera fonte di dolore: qualcosa da cui, giorno dopo giorno, si sente il bisogno di sfuggire. Un servizio che aumenta il rumore-dolore, invece di limitarlo, va automaticamente contro a quella che dovrebbe essere la missione originaria della tecnologia: farci vivere meglio.
Una missione che purtroppo su Internet e dintorni appare sempre più annacquata. È come se una talpa gigante stesse scavando un profondissimo vicolo cieco. Le aziende devono fare profitto: Twitter e Facebook non sono filantropi digitali ma società quotate in borsa. Tuttavia non possono mettere i propri servizi a pagamento, perché quello sì che scatenerebbe una rivoluzione (e, ancora peggio, il rischio di una immediata fuga di massa).
Nel vicolo cieco, l'unica soluzione rimane allora la pubblicità: catturare ogni giorno un secondo in più del nostro tempo, mostrandoci contenuti non decisi da noi ma dagli inserzionisti; o comunque che gli algoritmi hanno valutato come fonte di potenziale guadagno per le aziende: un tweet, uno status, un video, un flash subliminal-digitale. Quello che Google è riuscita a fare per anni, senza darci troppo fastidio.
È tutto freddamente logico. Ma altrettanto fredda e logica dovrebbe essere la riflessione attorno alla frase che apre questo post.
Quanto saremo disposti ad andare avanti, di fronte alla graduale trasformazione di servizi di comunicazione in megafoni commerciali? Svilupperemo dei miracolosi anticorpi che ci permetteranno di vivere e prosperare anche immersi in un rumore digitale destinato alla crescita illimitata? O ci sarà un momento in cui cederemo alla stanchezza, alla nausea, al dubbio ("perché sono qui?") decidendo che il gioco non vale più la candela e abbandonando quei resort tecnologici che oggi sembrano più interessati a ipnotizzarci che a farci vivere meglio?