lunedì, luglio 28, 2014

Cover stars killed cover bands

I Television suonano Marquee Moon al Primavera Sound 2014
(foto Santiago Periel, dal sito del festival)
Dunque sono tempi grami per le cover band. Ce lo rivela il solito cannocchiale puntato sull'America che questa volta, con la complicità di Rockol, ha scovato un articolo pubblicato il 16 luglio sul Wall Street Journal: These Days, Rock Cover Bands Can't Seem To Get It On di Neil Shah. L'atmosfera è a due passi dal de profundis. Le testimonianze dei musicisti interpellati da Shah, tutti attivi negli USA, sono unanimi: pochi concerti, pochi soldi, una debacle completa dai matrimoni a Las Vegas. E sempre meno alternative rimaste, per lo più geograficamente impegnative: navi da crociera, Bahrain...

Di fronte a una simile notizia, in genere l'esultanza esplode pavloviana. Se c'è un punto su cui convergono quasi tutti gli appassionati di musica, è che le cover band siano il Male. Rubano palchi, soldi e pubblico agli artisti, soprattutto quelli giovani e meno conosciuti, che cercano di proporre il loro materiale senza piegarsi al Verbo di Sweet Child O'Mine, Money o Sultans of Swing. Ci sono due aspetti che però vanno considerati, prima di vestirsi a festa e inneggiare al Nuovo Rinascimento. Uno è legato alla notizia in sé, l'altro a una riflessione sul generale momento della musica contemporanea.

Innanzitutto, nell'articolo di Neil Shah purtroppo manca il tassello decisivo: non si legge da nessuna parte che la crisi delle cover band coincide con un'impennata di concerti di artisti che suonano brani originali. Bar, locali e futuri sposi non hanno smesso di scritturare le cover band perché vogliono sentire qualcosa di nuovo. E nemmeno perché il pubblico lo abbia chiesto a gran voce. Lo hanno fatto semplicemente a causa della maledizione del ventunesimo secolo – LA CRISI – e stanno rimpiazzando i concerti di cover con dj set, karaoke e altre soluzioni più economiche.

C'è poi il secondo aspetto, che ho cercato di riassumere nel titolo di questo post e che adesso proverò a elaborare attraverso quattro trend che mi sembrano molto evidenti nel panorama musicale attuale (e in particolare in quello che rientra sotto quell'immenso ombrello chiamato rock).

1. Anno dopo anno, si è accatastata e si accatasta una quantità incredibile di materiale di repertorio che aspetta solo di essere reinterpretato. Antichi suoni che spesso appaiono – a ragione o a torto – più interessanti di quelli nuovi. È una questione di naturali proporzioni numeriche, dettate dal flusso del tempo: negli anni '60 tutto era praticamente nuovo, negli anni '80 molto era nuovo ma si iniziava già a essere consapevoli della ricchezza del catalogo, oggi il catalogo è un moloch da milioni di canzoni.

2. Anno dopo anno, si è accatastata e si accatasta una quantità incredibile di persone che preferiscono il catalogo rispetto alle novità. Spettatori che affollano i concerti delle reunion, i tributi, gli album suonati per intero, i decennali-ventennali-trentennali, magari disertando le esibizioni di nuovi artisti. A spingerli possono essere ragioni anagrafiche, eccesso di nostalgia, forse anche la sensazione di aver riempito lo spazio disponibile nel proprio hard disk mentale e di volersi coccolare un po' con quello.  

3. Anno dopo anno, è venuto meno il legame promozionale tra dischi e concerti. Fino a poco tempo fa – usiamo il solito 1999 di Napster come riferimento – i tour venivano organizzati soprattutto per presentare un album nuovo, cercando di trainarne le vendite. Da qui l'abitudine di dare al tour il nome dell'album e la regola di rimpinzare le scalette con pezzi nuovi. Oggi che di dischi se ne vendono sempre meno e che i concerti sono per molti artisti la fonte di guadagno principale, le tournée stanno slegandosi dagli album, permettendo una maggiore libertà di setlist. Paradossalmente, i tour con le scalette più fisse sono ormai quelli dove si risuonano per intero vecchi album: gli Afterhours che rifanno Hai paura del buio?, i Television con Marquee Moon... 

4. Anno dopo anno, per le ragioni espresse nel punto 3, il numero di concerti sta aumentando. Anche quelli di superbig che magari in passato non si facevano quasi mai vedere o non erano nemmeno più in attività. C'è una statistica che mi fa sempre un certo effetto e riguarda i concerti di Bruce Springsteen in Italia. Se dividiamo la sua carriera in quattro parti abbiamo: 1973-1984 (zero concerti in Italia), 1985-1994 (8 concerti, più l'apparizione alla serata Amnesty a Torino), 1995-2004 (12 concerti), 2005-2014 (23 concerti). Un crescendo continuo, poi l'esplosione. E il discorso non vale solo per Springsteen. Un boom dell'offerta originale che di sicuro pesa anche sull'appeal delle cover band. 

Morale della favola, se le cover band hanno davvero intrapreso la strada del dodo (cosa che comunque è da verificare), è per l'azione congiunta della crisi e di quel trend che sta trasformando tutti gli artisti/gruppi in cover band di se stessi. Non certo per un ritorno di fiamma del pubblico verso il materiale inedito a discapito di quello di repertorio. Anzi, la direzione mi sembra esattamente l'opposta: repertorio e oldies trionfano in modo sempre più netto. C'è da passare quindi dalla festa alla depressione? Non necessariamente. In mezzo al rumore e al caos, una delle cose belle portate da Internet è la possibilità di recuperare/studiare - con i propri tempi e seguendo le proprie tendenze, anche maniacali - le meraviglie dell'arte e della storia. Compresa quella del rock. Prima di Napster era tutto più complicato, oggi abbiamo strumenti di analisi, approfondimento e ascolto fantastici. E potenzialmente questa esperienza può diventare ancora più prelibata se la si abbina alla dimensione live: brani a volte riproposti in modo filologico, altre rielaborati, trasformati, professionalmente coverizzati (penso a Mick Harvey che canta Serge Gainsbourg in inglese, appuntamento mancato dal sottoscritto a Barcellona).  

Il problema, se mai, è che questo recupero del passato dovrebbe avvenire seguendo una linea di pensiero che spesso tende a venir smarrita:
a) per i giovani artisti, come costruzione di un bagaglio formativo da essere mescolato poi con il talento personale e con i suoni/atmosfere/linguaggi/temi del presente (e non solo come fonte di clonazione);
b) per il pubblico, come un percorso culturale e di piacere che si affianca e non sostituisce del tutto la fruizione di musica nuova (cosa che invece avviene spesso, con il puntuale e fastidioso accompagnamento dell'immortale tema di trombone "quella musica era meglio");
c) per i vecchi artisti, come valorizzazione/reinvenzione di ciò che è stato, nonché come possibile fonte di effetto sorpresa nelle scalette dei concerti (elementi che spesso rimangono nascosti dietro alle più evidenti, magari impellenti, ma di certo poco entusiasmanti necessità alimentari: con l'effetto, nei casi più gravi, che molti artisti purtroppo scivolano davvero nella trasformazione in cover band di se stessi).