Il leak è un demone indonesiano dall'aspetto terrificante. Ma oggi fa un po' meno paura che ai tempi di Napster. |
La scorsa settimana è uscito un nuovo disco di Neil Young. Si intitola A Letter Home ed è una raccolta di cover di Bob Dylan (Girl From the North Country), Bruce Springsteen (My Hometown), Phil Ochs (Changes), Tim Hardin (Reason To Believe) e altri artisti. La notizia era stata annunciata all'inizio dell'anno, con pochi dettagli e mi era sfuggita. Quando ho letto dell'uscita, ho subito pensato: "oh, sembra interessante, proviamo ad ascoltarlo". Pochi secondi e ancora meno clic sono stati sufficienti per rendermi conto che l'album (pubblicato solo in vinile per la Third Man Records di Jack White) non era disponibile sui miei due attuali principali fornitori di musica: YouTube e Spotify. In passato la mia reazione sarebbe stata forse furente ("cazzo!"), quasi sicuramente garibaldina (Napster, Audiogalaxy, Soulseek, Kazaa, eMule, a seconda del periodo storico). L'assaggio istantaneo di nuova musica era un diritto garantito dalla Costituzione di Internet e un obbligo del moderno ascoltatore digitale!
Domenica scorsa è stata invece qualcosa tipo: "Pazienza, me lo ascolterò quando arriverà su Spotify e YouTube". Con un insinuante retrogusto inconscio: "Può darsi che non lo ascolterò mai". Senza vergogna, ansia o sensi di colpa, mi sono rituffato nella playlist degli artisti che suoneranno al Primavera Sound di Barcellona. Il fatto è che questa condizione dell'animo ormai vale per chiunque. Persino per i mostri sacri della mia vita, vecchi e nuovi: U2, Pearl Jam, Radiohead. Lo stesso Everyday Robots di Damon Albarn - artista in rapida ascesa nel pantheon personale all-time - lo sto smozzicando con calma olimpionica. Per A Letter Home non mi è nemmeno passato per l'anticamera del cervello di aprire eMule (remore legali? diciamo piuttosto che si è proprio esaurito quel bisogno...). E la parola leak, "il disco che filtra in anticipo su Internet", terribile spauracchio per artisti e discografici nel decennio 1999-2009, ormai mi risuona in mente con lo stesso sapore museale di grammofono.
A cosa si deve questa strana sensazione del non avere più fretta di ascoltare un disco nuovo? È solo un problema mio? È la vecchiaia che avanza inesorabile? In parte, forse. Ma da quel che leggo sui social network o dalle chiacchiere scambiate away from keyboard (but not from smartphone) davanti a un amaro, credo di non essere l'unico soggetto a questa mutazione di aspettative e atteggiamento. E lo interpreto come l'ennesimo effetto di quella meravigliosa e terribile creatura che abbiamo imparato a conoscere nel moderno evo digitale: la Signora Abbondanza. Lo switch di pensiero è evidente: da "oddio oddio oddio, devo averlo subito" a "se non è quello sarà quest'altro". C'è sempre un quest'altro, a portata di mano. Un milione di quest'altro. Diciotto, venti, trenti milioni, a seconda dei comunicati stampa. E a volte scopri addirittura che l'indolenza ha avuto ragione: che il quest'altro ti suona meglio dell'oddio oddio oddio. Che non ha quasi più senso pensare oddio oddio oddio.
Dal punto di vista dell'ascoltatore, cioè dal mio punto di vista, ho come l'impressione che ci sia qualcosa di negativo in questo cambiamento. Ma visto che è praticamente inevitabile avere l'impressione che ci sia qualcosa di negativo in tutto ciò che è diverso dalle vecchie abitudini, tendo a fermare immediatamente quel ragionamento e a prendere un altro amaro. Dal punto di vista delle band, penso che ci troviamo di fronte a una situazione ambigua. Spesso sono gli stessi artisti - con la pratica delle esclusive, delle edizioni limitate, dei cofanetti deluxe - a elevare artificialmente la barriera d'accesso "immediato" ai loro prodotti. È una scelta dettata da comprensibilissime logiche economiche e alimentari: vendere meno, vendere nettamente meglio (qui c'è una limited edition di A Letter Home a 110$). E solo in un secondo tempo raggiungere le masse. Oggi lo definirei Modello Pixies, ma anche i grandiosi e santi Radiohead dell'epoca In Rainbows furono accusati di abusare di simili pratiche.
Non me la sento di biasimare gli artisti, anzi: finché le entrate tengono, il modello potrebbe essere destinato a durare (e forse - ma su questo sono più scettico, visto l'avanzare della vendita online - a dare un po' di ossigeno ai negozianti di dischi). Gli artisti però dovrebbero fare attenzione all'estinzione dell'oddio oddio oddio e al dilagare del se non è quello sarà quest'altro. Non sottovalutare il processo, non alimentarlo. Oggi, è molto più forte che in passato. Oggi il pubblico che ti volta le spalle il giorno dell'uscita magari poi non lo riacchiappi più, nemmeno quando raggiungi il mezzo proletario di YouTube. Ne sta creando di terremoti, la Signora Abbondanza. Chissà che non finisca per stravolgere in modo radicale anche i meccanismi e l'idea stessa di "nuova uscita". Si diceva che il formato album sarebbe scomparso a causa dell'atomizzazione dei contenuti su Internet. E se a minacciarlo fosse invece la moltiplicazione degli stessi e la derivante decrescente necessità del pubblico di ascoltarlo subito?