lunedì, aprile 28, 2014

Chiedere scusa per aver diffuso notizie false: vale solo per un genocidio o anche per un tweet?

Pieter Hugo, Portraits of Reconciliation (The New York Times Magazine)
Da Internazionale n.1046, La prigione del passato, Bartholomäus Grill:
Il 15 aprile, mentre si svolgeva il massacro di Ntarama, su Die Zeit veniva pubblicata una mia analisi, ovviamente scritta da lontano. Con tono saccente blateravo di un' "orribile guerra tribale" nel cuore dell'Africa. Tutti contro tutti, scrivevo: bellum omnium contra omnes. Quando non capisci niente di quello che succede veramente, una bella formula latina funziona sempre. Alla fine dell'articolo scrissi che un intervento esterno sarebbe stato inutile. Quell'articolo contiene gli errori più imperdonabili che abbia mai commesso nella mia vita professionale. 
(l'articolo originale è uscito su Der Spiegel, qui c'è la versione in inglese)

Bartholomäus Grill chiede scusa per come, esattamente vent'anni fa, sottovalutò il genocidio ruandese ("il più spaventoso dopo lo sterminio nazista degli ebrei e i campi della morte cambogiani") considerandolo e raccontandolo superficialmente come la solita guerra tribale africana. L'articolo, che comprende anche un reportage sul Ruanda di oggi (e su Internazionale è accompagnato da una serie di foto di Pieter Hugo in cui posano, assieme, carnefici e vittime di quei 100 giorni di massacri), spinge a fare almeno due riflessioni:

1. Il giornalismo precedente a Internet - spesso fin troppo ammantato di mitologia romantica, in particolare quello degli inviati di guerra - era tutt'altro che perfetto. Si scrivevano tante sciocchezze, si poteva accedere a meno fonti dirette e si beneficiava anche di una sorta di protezione dettata dalle condizioni tecnologiche predigitali. Se io scrivevo un'imprecisione, cosa poteva fare il lettore per denunciarla al mondo? La urlava dal balcone? La raccontava agli amici del bar? Vergava una lettera infastidita al giornale? Oggi l'allarme scatta nel giro di un tweet e se alimentato dal tam tam diventa di pubblico dominio e impone una rettifica/spiegazione quasi istantanea. Anche il cane da guardia ormai è social. 

2. Eppure, il principio di verità non sta troppo bene. La tecnologia dell'istante non permette solo un controllo/denuncia immediato degli errori, ma spinge verso una - irrimediabile? - moltiplicazione dei medesimi. Sui siti d'informazione il rilancio frenetico delle notizie ha praticamente azzerato il tempo necessario alla verifica delle fonti: che si tratti di un copia-e-incolla o di una riscrittura, spesso si pubblica con molta più leggerezza che in passato. E non basta, perché sui social network anche gli utenti 2.0 partecipano al valzer, rilanciando senza sosta bufale, esagerazioni & semplificazioni. 

Inventarsi la morte di un personaggio famoso non vale quanto nascondere al mondo un genocidio, è chiaro. Ma l'aspetto più preoccupante della transizione dell'informazione contemporanea dal vero al boh non credo stia tanto nel singolo contenuto quanto nel sentimento di fondo: quella specie di automatica e complice accettazione che ci spinge - naturalmente, forse inconsciamente - a non porci nemmeno il problema della veridicità di ciò che stiamo mettendo in circolazione. A considerare l'eventuale errore come un segno dei tempi. Non certo come qualcosa di cui bisognerà poi rendere conto o chiedere scusa. Ho l'impressione che sia un'abitudine che - silenziosa e insinuante - si stia diffondendo a molti livelli: dalle redazioni, alle menti, agli smartphone.  

Se vogliamo vederla dal punto di vista biblico, nel moderno dominio dell'informazione/comunicazione è in corso una violazione di massa - diretta o indiretta - dell'ottavo comandamento. Se puntiamo a una fredda analisi dell'efficienza del sistema, anche l'eventuale trionfo del Bene (= la dottrina Wikipedia secondo cui le correzioni bilanciano e mettono a posto gli errori) sarebbe ottenuto al prezzo di uno spreco incredibile di tempo, parole, pensieri, incazzature. Che sia per ridare un senso al concetto di informazione (e di giornalismo), per evitare di andare all'inferno o anche solo per proteggere la salute energetica e psichica del pianeta, forse dovremmo cercare tutti di diffondere un po' meno notizie false.