mercoledì, aprile 30, 2014

Il silenzioso dissolvimento dei giornali musicali in Italia

L'ultima copertina di XL
Leggo su Rockol che "dopo settant'anni e 783 numeri chiude la storica testata musicale italiana Musica e Dischi". Nel giro di pochi mesi la stessa sorte era toccata a Jam, XL, Rolling Stone (ufficialmente è fermo ai box in seguito al passaggio editoriale del marchio, ma simili soste sono sempre un po' sospette...). Grandi e piccoli, vecchi e nuovi, pop e rock: oggi, come ai tempi di Totò, la livella non sta facendo discriminazione e soprattutto sta operando in modo molto silenzioso. Un po' di solidarietà corre sui social network, ma si tratta giusto di benevole cortesie tra colleghi in difficoltà e vecchi lettori. Non c'è quel fremito di passione, nostalgia e tumultuosa sofferenza che spesso accompagna la fine di una grande stagione. Forse perché quella stagione è già finita da un pezzo. Più o meno da quando abbiamo iniziato a scambiarci informazioni, recensioni, consigli e commenti seguendo altri percorsi, sempre più distanti dalla carta e dall'edicola. Inflessibile come sa essere solo lei, la verità ci dice che le riviste musicali scompaiono e il mondo non se ne accorge nemmeno.  

C'è chi resiste, è vero, a colpi di restyling e coraggio. Ho diversi amici che ci stanno provando e forse potrebbero trarre anche indiretto giovamento da questa drastica riduzione della concorrenza. È la migliore delle ipotesi: l'idea che il mercato italiano - in mancanza di un cataclisma digitale che "spenga" Internet (ma in quel caso suppongo che avremmo ben altri problemi a cui pensare) - possa permettere la sopravvivenza di 3/4 riviste più solide, ben fatte, che nutrano il ristretto pubblico di chi non può vivere senza la carta. Riviste a cui - da ex-collaboratore, per oltre quindici anni, di un giornale musicale - va tutta la mia simpatia. Assieme all'augurio che possano trovare qualcosa di più di una semplice e benedetta conservazione, ciò di cui credo abbiano più bisogno in questi tempi: una nuova funzione.

Ci ragionavo qualche giorno fa, sfogliando il nuovo numero di un mensile in edicola. Quando ho iniziato a leggere giornali musicali non lo facevo per nostalgia, inerzia, solidarietà, superiorità morale: li compravo perché svolgevano un compito unico ed essenziale. Mi davano qualcosa che nessun altro riusciva a darmi. Ecco, forse la grande sfida per gli ultimi superstiti sta tutta lì: riuscire nell'impresa di inventarsi un nuovo senso. Un valore che ne renda necessario l'acquisto non solo agli appassionati di lungo corso ma anche a potenziali nuovi lettori: un richiamo non eticamente corretto (noi che compriamo giornali salviamo l'anima del pianeta), ma dannatamente necessario (it's rock'n'roll, I like it, I need it).

È lo stesso valore che - per restare sull'esperienza personale - mi offre l'unico settimanale di carta di cui sono ancora regolare lettore. Ed è quello che secondo me troppo spesso sfugge alla (piccola) discussione attorno alla scomparsa delle riviste musicali, tutta improntata proprio su nostalgia, lignaggio culturale, contrapposizioni analogicodigitali e dintorni. Non è questione di essere migliori di Internet o dei social network: sfidarli sul loro terreno vuol dire perdere in partenza, per un googol di ragioni. Bisogna dare al pubblico qualcosa che non c'è su Internet o nei social network (o almeno in un modo che non c'è su Internet o nei social network: esempio, un rigorosissimo filtro contro l'abbondanza dei contenuti?). Facile più a dirsi che a farsi, me ne rendo conto.