sabato, maggio 03, 2014

Riciclando le paure degli antenati: quando erano il telegrafo e la tv a condannare l'umanità

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Forse è davvero tutto un ciclo che si ripete.
Leggendo Writing on the Wall: Social Media - The First 2,000 Years di Tom Standage sono incappato in queste due citazioni:
"America has in fact transformed journalism from what it once was, the periodical expression of the thought of the time, the opportune record of the questions and answers of contemporary life, into an agency for collecting, condensing and assimilating the trivialities of the entire human existence. (...) The effect is disastrous, and affects the whole range of our mental activities. We devevolp hurry into a deliberate system, skimming of surfaces into a science, the pursuit of novelties and sensations into the normal business of our lives... The frantic haste with which we bolt everything we take, seconded by the eager wish of the journalist not to be a day behind his competitor, abolishes deliberation from judgment and sound digestion from our mental constitutions. We have no time to go below surfaces, and as a general thing no disposition."
W. J. Stillman, Journalism and LiteratureAtlantic Monthly (1891)
"Television was seen as an opportunity to extend the perception of the average American, to open for all the great excitement and education ad self-fulfilling potential that can come from exposure to the best that man has to offer. By now almost everyone, including those in the industry, would concede that television has failed. Not only has if failed to make of us a better race of men, it has actually made us worse than we were before. The former would be indictment enough. The latter is simply intolerable."
Nicholas Johnson, Test Pattern for Living (1972)
Provate a sostituire "Internet" alle due parole iniziali in grassetto. Ecco, il risultato non è forse il riassunto di alcune tra le accuse che vengono spesso rivolte (anche dal sottoscritto) alla strada presa da Internet negli ultimi dieci anni, alimentata dall'esplosione dei social media e della schizo-informazione? 

Alcune frasi sembrano estratte, parola per parola, dalla discussione contemporanea: il neogiornalismo come "raccolta della trivialità dell'esistenza umana" (i boxini dei siti dei grandi quotidiani?), un "effetto disastroso che colpisce tutte le nostre attività di pensiero", il "disperato desiderio del giornalista di non arrivare dietro al suo rivale" (i rilanci di notizie con il copia-e-incolla), il "non avere più il tempo di scavare sotto la superficie".

E ancora... il sogno di un nuovo mezzo che "migliori la conoscenza del cittadino medio, gli apra un mondo nuovo, lo aiuti - esponendolo a tutto il meglio creato dall'umanità - a esprimere l'intero suo potenziale" seguito dalla consapevolezza di un fallimento e dal timore che il nuovo mezzo "ci stia invece rendendo addirittura peggiori" (nove volte su dieci, quando parlo dei social network termino i miei borbottii con questa sentenza).  

Eppure si tratta di considerazioni provenienti dal passato. Esatto: quello stesso passato che - mentre ci scagliamo contro le mutazioni del presente - tendiamo a mettere su un piedistallo. Il 1972. Addirittura il 1891. Forse è davvero tutto un ciclo che si ripete: scatti in avanti, paure ataviche, calibrati adattamenti, scatti in avanti, paure ataviche, calibrati adattamenti. E forse, a voler fare il solito democristiano, nessuno ha torto: per procedere nel suo cammino, l'umanità ha bisogno di mantenere un continuo equilibrio tra apocalittici e integrati, tra chi esagera nell'abbracciare il nuovo (solo perché è nuovo) e chi altrettanto esagera nel temerlo (solo perché è nuovo). Un equilibrio e un avanzamento non troppo sbracato sussistono solo grazie alla coesistenza di due forze opposte e fieramente radicali.

Visione troppo buonista? Ok, in effetti ce n'è anche una alternativa: è dal 1891 - e probabilmente anche da prima, diciamo da quando Socrate rifiutò la scrittura - che per colpa del progresso stiamo inesorabilmente regredendo.