venerdì, ottobre 04, 2013

Janelle Monáe e gli orizzonti dell'afrofuturismo


E se l'afrofuturismo diventasse il nuovo steampunk?

Ipotesi che si disegna nella mente per colpa del nuovo album di Janelle Monáe, The Electric Lady. Soprattutto delle recensioni a esso dedicate, dove - in particolare sui media d'oltre Atlantico - la parola "afrofuturismo" torna in modo quasi ossessivo.

Prima di divagare, sei righe di plauso a The Electric Lady. Tra i dischi che ho ascoltato quest'anno, è di certo il più lontano dai miei gusti abituali, con il suo mix di soul, funky, r'n'b, pop e disco (nel 2013 TUTTI mettono un po' di disco nei propri dischi). The Electric Lady è un album coloratissimo, energetico, flamboyant, da febbre del sabato sera, perfetto da ascoltare in macchina a tutto volume, mentre stai andando a ballare con gli amici (una situazione da cui io fieramente rifuggo: mi limito ad ascoltarlo a tutto volume, sì, ma a casa, per la gioia dei vicini). 


I saggi vi diranno che nell'album ci sono canzoni più interessanti.
Hanno ragione, ma questa è pura ruggente malinconia da colonna sonora '70-'80.

Dal punto di vista narrativo e di immaginario, in The Electric Lady Janelle Monáe torna a indossare i panni dell'androide Cindi Mayweather, il suo Ziggy Stardust, alter ego artistico e fantascientifico già protagonista dei precedenti EP e dell'album The ArchAndroid. Ed è qui che ci spostiamo verso l'afrofuturismo.

Come spiega Wikipedia (la traduzione è mia):
L'afrofuturismo è un'estetica emergente - letteraria e culturale - che combina elementi di fantascienza, fiction storica, fantasy, "afrocentricity" e realismo magico con cosmologie extra-occidentali, come critica non solo delle problematiche contemporanee relative alle persone di colore, ma anche per rivedere, interrogare e rimettere sotto esame gli eventi storici del passato. Coniato da Mark Dery nel 1993, il termine "afrofuturismo" affronta temi e questioni della Diaspora Africana attraverso le lenti della tecnocultura e della fantascienza. 
Sulla bilancia spesso finiscono per pesare di più i connotati antropologici/razziali di afro (da afroamerican), rispetto a quelli geografici (da Africa). Opinione personale: dal punto di vista estetico e soprattutto narrativo, le potenzialità più interessanti sono però radicate proprio nel continente africano (più che in una fusione - inevitabilmente americanocentrica - tra le tradizioni della popolazione di colore e la fantascienza). Se ci si concentrerà su quegli orizzonti e quei territori, possibilmente limitando/neutralizzando l'approccio neocolonialista, potrebbe davvero venirne fuori una mitologia nuova, ricca, affascinante, avvincente, a tratti anche distopica, come quella che anima lo steampunk

Cinque esempi trasversali di afrofuturismo - o perlomeno, di ciò che a me piace intendere come afrofuturismo - che ho incontrato nei giorni/mesi/anni scorsi:

District 9 (Neill Blomkamp, lungometraggio)
I dischi volanti atterrano a Città del Capo. 



The Afronauts (Cristina De Middel, progetto fotografico) 
1964, lo Zambia, il sogno del primo uomo africano sulla Luna.



Pumzi (Wanuri Kahiu, cortometraggio) 
Post-apocalypse now, in Kenya




Sonic Journey Into Afrofuturism (King Britt, mix musicale)
Una raccolta compilata per il sito Okay Africa, che ripercorre le stagioni dell'afrofuturismo musicale, dalla preistoria jazzata (Herbie Hancock, Miles Davis, Alice Coltrane) alla contemporaneità contaminata (Flying Lotus, Bombino, Common) a un'ipotesi di futuro (Shabazz Palaces). Ascoltabile integralmente su SoundCloud o, in versione ridotta, nella playlist che ho preparato su Spotify. 



The Dead (Jonathan & Howard Ford, lungometraggio)
 L'alba dei morti viventi. In Burkina Faso.