mercoledì, aprile 03, 2013

The Rock is a Vampire: Glastonbury, gli Stones e il (bi)sogno di una nuova controcultura


"Cazzo, è così!". In genere è questa l'esclamazione che mi scappa quando sono d'accordo con qualcosa: un articolo, un libro, un tweet. Nei casi di maggior entusiasmo (e quando sono protetto dalle mura domestiche), la reazione avviene pure ad alta voce, con tutte le lettere maiuscole, in grassetto e un numero imprecisato/esagerato di punti esclamativi: CAZZO, E' COSI'!!!!! Niente di particolarmente originale, me ne rendo conto... Anche le mie pareti non ne possono più. Comunque, lunedì sera mi è successo di nuovo, leggendo un articolo di Paul Morley sul Guardian: The Rolling Stones will reign supreme until there is a new counterculture ("I Rolling Stones regneranno incontrastati finché non ci sarà una nuova controcultura"). Un pezzo che in qualche modo legittima tutta una serie di idee, pensieri e insofferenze che mi stanno angustiando da parecchio tempo e che (in parte) avevo ritrovato rappresentate anche in Retromania di Simon Reynolds.

La notizia di partenza è la conferma che i Rolling Stones suoneranno come headliner al prossimo festival di Glastonbury, "un mese prima che il loro cantante compia settant'anni". Alla quale Morley reagisce così: "Gli Stones a Glastonbury confermano come i figli del Ventesimo secolo, diciamo quelli nati tra l'inizio degli anni '40 e l'inizio dei '60, i baby boomers, mantengano il controllo di quella cultura pop che hanno inventato e reinventato tra la fine dei '50 e dei '70, anche oggi che l'industria discografica e le forme tradizionali di media, business e televisione si avviano verso l'estinzione. I boomers sono diventati delle blatte in grado di sopravvivere a ogni sorta di catastrofe culturale, persino a quello che dovrebbe essere il loro normale ciclo vitale". Metafora cruda, eh? Il resto lo distribuisco - sempre in neretto e corsivo - nei prossimi paragrafi. Aggiungendo qualche ragionamento mio e partendo da una semplice (anche se oggi sempre meno definita) schematizzazione tra pubblico, artisti, media. 

(piccola premessa: Paul Morley non è un ragazzino che si lancia con il suo ronzino digitale all'assalto dei matusa a vento, è nato nel 1957, quindi anagraficamente rientra nella stessa generazione a cui attribuisce doti scarafaggiche).

Il pubblico e le crociere
Sotto molti aspetti, il pubblico rappresenta la dimensione più libera e (giustamente) incontrollabile. Tu non puoi dire al pubblico cosa ascoltare. Nemmeno ai boomers. Non puoi pretendere che buttino via gli Stones e si dedichino ai Justice (sostituite il nome che vi sembra più gggiovane) perché il mondo ha un disperato bisogno di una pop culture nuova di zecca. Se ciò avvenisse, tra l'altro, sarebbe un'immagine terrificante. Grazie al cielo, l'ascolto di musica è libero e dipende da un desiderio istintivo di piacere, di emozione, anche di fuga dal grigiore e dalle ansie quotidiane. Non si cerca sempre la rivoluzione. E questo piacere, man mano che si accumulano i calendari, viene sempre più innescato da ciò che si conosce e che ha accompagnato gli anni ruggenti della nostra vita (il liceo, l'università, i primi amori, tutte quelle magiche stagioni in cui non si aveva il fiatone a fare due piani di scale e la troika calvizie-pancia-crisi non aveva ancora soffocato i nostri sogni ribelli).

Io non sono un boomer, appartengo a quella generazione un po' sfigata e parecchio lamentosa figlia degli anni '70, ma ogni volta che riorganizzo l'iPod (patologicamente troppo spesso) noto come cresca regolarmente l'emozione nel ritrovare vecchi album di due decenni fa. E non parlo nemmeno di quelli che reputo i dischi della mia vita: si tratta semplicemente di band e artisti che riaccendono impetuose memorie giovanili. Manic Street Preachers, Verve, Soul Asylum, Ritmo Tribale, Guns n'Roses. Mi rendo conto come di default, inconsciamente, attribuisca loro - anche ai Guns n'Roses, sì - un quid superiore a qualsiasi nuovo album rock esca oggi. E' come se partissero avvantaggiati, senza l'handicap della non-conoscenza. Non credo di essere l'unico. Anzi, so di non essere l'unico. Un paio d'anni fa, Cory Doctorow (uno scrittore/attivista/blogger canadese non certo conservatore o passatista) mi disse che da quando aveva compiuto quarant'anni la stragrande maggioranza dei suoi ascolti riguardava artisti già conosciuti e amati. Credo che il discorso valga più o meno per chiunque.

C'è dunque una sorta di forza innata e inevitabile che segna il trionfo del Grande Passato nelle playlist degli over 40 (e degli over 35). Un trionfo che influisce anche sul modo in cui guardiamo/giudichiamo la "nuova musica". E che, unito ad altri discorsi ben più prosaici (tipo le disponibilità di portafoglio) fa sì che tutti i festival rock - non solo Glastonbury - si stiano trasformando, parallelamente all'invecchiamento del pubblico, nella sagra della reunion, del concerto-tributo-al-disco-famoso, dell'atteso ritorno, ecc. ecc. E' inevitabile. Così come è inevitabile che quegli stessi festival si riducano a "qualcosa di spesso piacevole e divertente (e in grado di nutrire il voracissimo demone della nostalgia), ma non certo un luogo a cui guardare se si cerca il nuovo". Piuttosto, "l'equivalente di una crociera per la generazione rock, quell'esperienza confortevole che ti permette di osservare bellezze ben preservate, siti oscuri e monumenti classici, celebrando anche antichi rituali, ma da una distanza di sicurezza". Un'equivalenza che ha ormai superato l'inquietante punto di non ritorno, visto che si sta davvero diffondendo il fenomeno dei festival-crociera: dalla S.S. Coachella alla metallara Monsters of Rock Cruise. Soprattutto nel caso dei citati baby boomers, tutto ciò appare irreversibile. Ma il problema non sono i baby boomers. E qui aggiungiamo al mix un altro ingrediente...

Gli artisti e il vintage
"Paragonati agli altri headliner di Glastonbury - Arctic Monkeys e Mumford and Sons - gli Stones possiedono perversamente la vera giovinezza e lo spirito guerriero. Bene o male, sono dei vecchi che suonano musica giovane, non dei giovani che suonano musica vecchia". Questo è un punto cruciale. Qualcosa che gli artisti dovrebbero tenere bene a mente, soprattutto quando si lamentano del fatto che i "vecchi" prendono più soldi di loro, ottengono più spazi sui media, occupano i palchi più prestigiosi, non si levano dalle palle, ecc. ecc.. Se tu fai una musica che non è altro che una derivazione di quella degli Stones, è normale che il pubblico, gli organizzatori, i giornalisti e probabilmente anche i venusiani in crociera-rock sulla Terra preferiscano dedicarsi all'originale, a maggior ragione se ha pure scoperto l'elisir di lunga vita come Mick Jagger. Così come è quasi scontato che la loro musica, anche se tirata fuori da scaffali del Ventesimo secolo, sia migliore della tua.

Purtroppo il rock (soprattutto inteso nell'accezione chitarra-basso-batteria) è una continua riproposizione di schemi già sentiti. I migliori artisti di oggi sono al massimo buoni interpreti di uno stile che è stato codificato e sarà sempre identificato (dal punto di vista musicale, ma anche culturale, sociale, estetico) con gli anni '60 e i '70. E gli stessi artisti di ieri - mi sanguina il cuore a scriverlo - quelli che tra britpop, indie-rock e grunge conquistarono la mia generazione negli anni '90, adesso che iniziamo a storicizzarli stanno finendo inevitabilmente per essere considerati come delle (buone) derivazioni dei Beatles, dei Led Zeppelin, del punk. A qualcuno suonerà come una bestemmia (perdonami Kurt!), ma temo che ciò non preoccupi più di tanto lo scalpellino del tempo. Sto cantando di nuovo l'antico ritornello sul rock che è morto? Esatto. Il rock è morto mille volte, ormai. Solo che risorge sempre. Più appassito, più sbiadito, più zombi rispetto alla reunion precedente. Meno rilevante, meno eccitante, meno contemporaneo. La sfera di cristallo è impietosa. Se i baby boomers sono blatte indistruttibili, nel futuro dei festival si intravedono inquietanti sabba a base di granny stars, reunion di mezza età e giovani cover band che non sanno di esserlo e continuano a suonare musica vecchia. 

Il senso delle granny stars e delle reunion, in fondo, è chiaro. Non sarà artisticamente/culturalmente entusiasmante, ma non è nemmeno immorale o deprecabile. I Rolling Stones sono contenti di suonare a Glastonbury, i boomers e non solo loro sono contenti di sentire che nel 2013 non hanno ancora avuto soddisfazione (mentre gli U2 non hanno ancora trovato cosa stanno cercando e gli Who sperano di morire prima di diventare vecchi: sì, come no...) e se i Litfiba quest'estate faranno un salto a Torino con la "trilogia del potere", prevedo che io e la mia pancia andremo a tracannarci due birre e Apapaia sotto un tappeto di stelle. Perché no? Il passato è un tesoro, sto rileggendo Hemingway, qualche giorno fa mi sono rivisto Fino all'ultimo respiro e in ogni città che visito cerco di vedere almeno un museo. Fa bene alla salute: passato sano in mens sana in corpore sano. E stimola la creatività. O almeno così dovrebbe essere. Il problema è quando il passato non si accontenta di essere passato e invade il presente, disinnescando il futuro. Quando viene raccontato e percepito come l'ombelico del mondo. Il problema sono i Rolling Stones a Glastonbury (o i Blur al Primavera Sound, o anche la bowiemania di inizio 2013) come calamita dell'immaginario musicale contemporaneo. Come il concerto da vedere. Come la notizia da copertina. Come il mantra da ripetere sui social network. Come la storia più sexy del presente. I Rolling Stones o David Bowie? Nel 2013?

E' un problema che si fa tragedia quando questa sindrome contamina classi ben più giovani dei boomers. A cominciare da coloro che dovrebbero condurre la rivoluzione creativa: gli artisti, le cover band che non si rendono conto di esserlo. E, visto che oggi ormai i compartimenti stagni sono caduti, mettiamo nel calderone anche il pubblico: gli under 40 e addirittura gli under 30 che - tra hipsterismo e culto del vintage - celebrano continuamente la grandezza del passato (per poi lamentarsi se quel passato li soffoca: nella musica come nella vita). Morley, again: "Se gli Stones occupano ancora un ruolo così rilevante, non è solo perché gli arroganti baby boomers, con la loro presa appiccicosa e la loro presenza culturale dominante, hanno così tanto potere da bloccare tutto ciò che è pericolosamente nuovo. La colpa è anche dei giovani cultori del vintage, i figli e i nipoti dei boomers, la generazione V, che ha permesso loro di rientrare in gioco. (...) La nuova generazione ha solo una possibilità per riprendere il controllo tra le macerie della decadenza pop: deve concepire un abbagliante ibrido culturale - forse coinvolgendo il codice informatico, il self-branding, l'ispirazione dai fumetti, l'architettura, una profonda riconfigurazione di quella sorveglianza sociale e morale ormai scomparsa nel rock, la mutata velocità di pensiero - qualcosa che riverberi dal mondo come si trova oggi sull'orlo del precipizio, non come era in passato quando stava risalendone" (il rock nacque in un Occidente dal mood ben diverso rispetto a quello attuale, sull'onda della ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale)".

Questo è ciò di cui avremmo bisogno. Le nuove generazioni di artisti e pubblico dovrebbero ridere in faccia a chi fa credere loro che non ci sia senso oltre ai Beatles. Dovrebbero provare lo stesso affettuoso rispetto che il punk provava per i Pink Floyd, la swingin' London per le gonne lunghe o il futurismo per qualsiasi cosa non fosse futurismo. Almeno in parte. Io sono schifosamente buonista, ma qui vedo il bisogno di un po' di sano e sincero odio creativo. Se vogliono davvero essere culturalmente rilevanti, dovrebbero smettere di "pensare che una nuova controcultura giovanile possa assomigliare a quelle del passato, con il rock come elemento fondante. Qualsiasi esplosione rivoluzionaria del XXI secolo assomiglierà al rock (...) esattamente quanto gli Stones assomigliavano ai film muti". I ventenni che inventarono il rock lo fecero per distruggere, o quantomeno allontanarsi, dagli schemi del passato. Per ribellarsi, innovare, conquistare. Chi suona rock oggi è un adoratore del passato. Ne è succube. Non passa giorno o festival che non lo celebri con tributi, omaggi e dichiarazioni d'amore perpetuo. Con l'aggravante che ormai siamo precipitati nella svalutazione della rivalutazione. Ormai chiunque ha diritto ai suoi quindici minuti di revival: da Nick Drake a Mauro Repetto, passando per gli Husker Du, Madonna e Rick Astley. Basta che abbia prodotto qualcosa più di quindici anni fa. Come fa a nascere qualcosa di nuovo se nessuno mette in discussione il passato? 

I giornalisti e la musica carina
Il presente è sciapo. Ma non brutto. Tra rock e dintorni, oggi siamo circondati da musica piacevolissima. Bellina. Carina. Onestamente e tecnicamente ben fatta. In fondo non si sta così male. Tutto è tranquillo, prevedibile/preudibile, confortante, conforme. Ma... non sarebbe meglio se arrivasse qualcosa di straordinario? Non sentite anche voi il bisogno di qualcosa di straordinario? E se provassimo a costruirlo o quantomeno cercarlo in prima persona, questo qualcosa di straordinario, invece che raggomitolarci in malinconica estasi di fronte ai deliziosi corsari di film come I Love Radio Rock (o agli Hemingway e Dalì della ville lumière, come fa il protagonista di Midnight in Paris? Film che personalmente ho amato, ma che oggi mi lasciano un retrogusto dolceamaro...).

Se il dito indica la luna, sulla luna non ci sono solo i giovani hipster e il loro vintagismo. Ci sono anche i giornalisti, i blogger, i narratori. Partiamo un po' alla lontana. Morley cita quella che potrebbe essere una spiegazione meccanicistica della passività delle nuove generazioni. Più che i soldi o la precarietà, c'entrano il mondo dei media, della comunicazione, dell'abbondanza: "Viziata dall'accesso istantaneo all'abbondanza della cultura pop, con la disponibilità di un ventaglio praticamente infinito di sensazioni, la generazione contemporanea - a differenza di quella dei boomers - non ha bisogno di forzare la mano e di inseguire nuove forme di libertà in reazione ai precedenti valori. E' intrappolata in un mondo costruito dai genitori (...) che li rifornisce di facili piaceri e scappatoie preconfezionate. E' qualcosa che spegne ogni desiderio di sviluppare nuovi modi di opporsi al sistema, di inventare una controcultura disobbediente nell'era di Internet che riesca finalmente a dimostrare quanto la vecchia controcultura sia antiquata e devastata".

L'informazione è dunque corresponsabile dello stato attuale delle cose. Se non altro, lo è in senso meccanico: la diffusione di Internet e delle reti digitali ha automaticamente generato questo fiume in piena di bit e link, di stimoli e contenuti. E' una variazione della teoria (tutt'altro che campata per aria) del potere obnubilante e narcotizzante del rumore. Ma nascondersi dietro al facile alibi dell'infrastruttura non è certo la cura, anzi fa parte della malattia. Non pensiamo che sia sempre e solo colpa di qualcun altro, ancora meglio se un moloch tecnologico. Quella macchina dell'informazione - volenti o nolenti, uno che vale uno o tutti per tutti -  siamo noi a guidarla. Siamo noi a riempire le pagine virtuali di articoli, di post, di status. Siamo noi ad alimentare il fiume in piena e a influenzare sguardi e ascolti con i nostri tweet. I Guardiani della Conservazione siamo noi come normali utenti del Web, noi come giornalisti.

Negli ultimi mesi mi è capitato di leggere diversi articoli sul senso contemporaneo del giornalismo musicale, sull'approccio, sul rapporto con la tradizione, con i grandi maestri (anche la critica rock ha i suoi Rolling Stones). I miei due cents? Credo che siamo arrivati a un punto in cui l'invecchiamento oggettivo/fisiologico del rock e dei suoi protagonisti, richieda qualcosa di molto simile a una separazione delle carriere nel mondo dell'informazione. Da un lato c'è lo storico/curatore, che esplora e illustra il passato (scrivendo anche biografie, organizzando mostre e retrospettive...). Dall'altro c'è l'osservatore del presente musicale. Colui che, se non vuole finire automaticamente nella prima categoria, ha il dovere - un po' deontologico, un po' morale, un po' rivoluzionario - di riporre nella custodia gli occhiali distorsivi del passato, di abbandonare ogni velleità di scoprire i nuovi Beatles (negli anni '60 l'obiettivo era scoprire il nuovo Mozart?), di fiutare, esplorare, portare alla luce o magari anche stroncare, ogni nuovo possibile alito creativo/sovversivo. Da un lato c'è il giornalista rock, dall'altro il giornalista contemporaneo.

Abbiamo bisogno di entrambi, ma al momento ci mancano soprattutto i secondi. Ci manca qualcuno che - di fronte all'ennesimo artista (diciottenne o settantenne che sia) che decide di riciclare Pet Sounds - sfoderi la sua sciabola più spietata ed efficace: l'indifferenza. Che abbia il coraggio e la tempra di snobbare l'imitazione di un'imitazione, preferendo gettare il suo sguardo altrove. Andare a caccia del nuovo, ancora meglio se scorbutico, strano, imprevedibile, disturbante, vivo di luce sua e non riflessa, per quanto flebile. Come il pubblico, come l'artista, anche il giornalista deve smettere di essere passivo, deve tornare a essere cacciatore. Prima di scrivere "oh, non c'è nulla di nuovo", deve aver setacciato mari e monti. E su questi mari e monti magari è meglio che non ci siano troppe chitarre. O che, se ci sono, suonino come clavicembali o laser spaziali, piuttosto che come quella di Keith Richards. Non può avere paura dell'ignoto, non può provarne fastidio: dovrebbe invece esserne attratto. Nella musica e non solo nella musica. Non può limitarsi a essere giornalista più o meno boomer che parla a pubblico più o meno boomer di cose più o meno boomer. Se non ha il coraggio di abbandonare/demitizzare il rock, deve accettare l'idea di essere cronista di un autunno che tramonta, non della nascita di qualcosa di nuovo. Celentano è rock, l'eventuale controcultura del terzo millennio non lo sarà di certo. Ha ragione Morley ("CAZZO, E' VERO!"). Il rock è come la nouvelle vague, come Hemingway, come le buffe statuette precolombiane esposte in un Museo di Belle Arti di Boston. Splendida, adorabile, meravigliosa... storia.  

E se il bambino fosse già nato? 
Può darsi che sia solo un sciocco ottimismo di inizio primavera, ma io ho l'impressione che la "controcultura" di cui parla Morley stia già germogliando; che ci sia qualcosa di interessante nell'aria, che si stia verificando quel magico allineamento cosmico tra condizioni tecnologiche, culturali, sociali ed economiche (anche drammatiche = la crisi) in grado di generare una nuova esplosione creativa. Se non ne abbiamo sentito i primi vagiti, ho il sospetto che sia proprio perché siamo un po' tutti (pubblico, artisti, media, babyboomers, generazione V) troppo distratti dalle luccicanti e celebrative piramidi delle mille Glastonbury del mondo. Se vogliamo davvero il cambiamento e il rinnovamento (e non ci limitiamo solo a urlare indignati che lo vogliamo), dovremmo zittire il boomer che è in noi  - a maggior ragione, se non siamo nemmeno boomer! - e avere il coraggio di cambiare il nostro modo di ascoltare, guardare, scrivere, cercare, creare.

P.S. Le coincidenze non esistono ma il loro effetto è meraviglioso. Sto leggendo Limonov di Emmanuel Carrère e proprio oggi mi ritrovo di fronte queste righe, riferite agli anni '70:
"Leggere i versi di Brodskij è come ascoltare musica classica, Prokof'ev o Britten, mentre quello che scrive quel ragazzaccio di Edicka fa pensare piuttosto a Lou Reed: a walk on the wild side. «Con questo non voglio dire» sfuma il suo giudizio Smakov «che Lou Reed sia meglio di Britten o di Prokof'ev - io personalmente preferisco Britten e Prokof'ev - ma, insomma, un'esibizione di Lou Reed alla Factory è più contemporanea di una rappresentazione di Romeo e Giulietta al Metropolitan Opera, non si può certo sostenere il contrario»."
C'è sempre il bisogno di un'esibizione più contemporanea. Non si può sostenere il contrario.