A meno che non viviate su Marte (o lontano da Twitbook), saprete di sicuro che ieri David Bowie ha festeggiato il suo 66esimo compleanno pubblicando una nuova canzone. Malinconicissima ballata, Where Are We Know? è stata accompagnata da un altrettanto malinconico video, ad alto tasso berlinese. Un'operazione di marketing a sorpresa che ha generato ottimi risultati su iTunes (dove il singolo e l'imminente album The Next Day - in preordine - stanno andando molto bene) e su YouTube (dove in poco più di 24 ore la canzone ha ricevuto un milione e mezzo di views: il miliardo di Gangman Style è lontano, ma Bowie non può lamentarsi, dieci anni fa difficilmente avrebbe ottenuto un simile successo).
Tutto merito dell'ansia da competizione che ha contagiato milioni di giornalisti, blogger e utenti di social network, impegnati a sgomitare e inseguirsi tra tweet, aggiornamenti di status e articoli (il sottoscritto ha sentito l'irresistibile bisogno di cinguettare alle 9.20). Nella fattispecie dei siti d'informazione, il 99% delle news del mattino ha riportato le stesse informazioni: (apnea on) "Nuovo video di Bowie. Stop. Dopo dieci anni. Stop. Arriverà anche l'album. Stop" (apnea off, respiro profondo). Gli articoli del pomeriggio, invece, hanno proposto una maggiore varietà: riflessioni sul marketing, reazioni di pubblico e personaggi famosi, considerazioni sulla canzone, sul testo, ecc. ecc.
Una delle idee migliori, a giudizio del sottoscritto, è venuta a The Guardian, che ha chiesto alla sua ex-corrispondente da Berlino Helen Pidd di analizzare i riferimenti di Where Are We Know? alla capitale tedesca. Il risultato è duplice: da un lato, una guida a Berlino attraverso la canzone; dall'altro, una guida alla canzone (e a Bowie) attraverso Berlino. Ed è stato ottenuto attraverso un involontario meccanismo di crowdsourcing. Nel senso che la Pidd ha scritto l'articolo in fretta e furia (è l'era di Internet, bellezza) e i lettori con altrettanta fretta e un bel po' di furia le hanno fatto le pulci nei commenti. Segnalando imperfezioni, errori, altri riferimenti. La giornalista ha risposto, ammettendo gli errori ed effettuando le correzioni. E l'articolo finale è diventato questo: Where are we now? Here are some hints, Bowie.
Non so se questa sia la modalità giusta di fare giornalismo nel 2013. Credo che la risposta stia nel mezzo. Il giornalista dovrebbe fare di tutto per evitare sciatterie/facilonerie (che, ahimè, sono invece sempre più frequenti). Il lettore, dal canto suo, dovrebbe capire che i tempi della comunicazione odierna ci allontanano sempre più dalla perfezione. Nel caso in questione, il giornalista chiamato a scrivere un articolo in un'ora, per quanto lavori bene sulle fonti, non potrà mai raggiungere la stessa conoscenza del fan feticista che sa tutto sul Bowie berlinese, dall'appartamento in cui alloggiava al negozio dove comprava il latte. Dalla loro interazione può nascere un testo migliore: il giornalista ha l'idea, scrive la prima versione del testo, la pubblica, i lettori intervengono e il pezzo finale (modificato in modo trasparente, non di nascosto: altro peccato assai diffuso) raggiunge una forma più completa. Sotto molti aspetti, è la modalità Wikipedia applicata al giornalismo. Non può funzionare per tutto, ci mancherebbe altro, ma forse dovremmo iniziare a considerarla possibile e - in certe situazioni - addirittura auspicabile.