giovedì, settembre 02, 2010

Arcade en Seine

Alla fine, l'ho trovato negli Arcade Fire il mio concerto dell'anno.



Nonostante gli U2, nonostante i Pearl Jam, sconfiggendo i primaverili A Toys Orchestra e piegandosi ma senza lasciarsi spezzare (o spegnere) da una gelida e ventosa pioggia parigina di fine agosto.



Quello che mi avevano detto gli amici, quello che si intravedeva dai video su YouTube, quello che lasciavano presagire vinili, cd o MP3, era tutto vero. Gli Arcade Fire sono innanzitutto belli da vedere. Non quella bellezza. Quell'altra. Quella che va oltre alla superficie e si scioglie nel ritmo, nell'energia, nella passione.



Di solito, io sono tutto tranne che un animale da transenna. Spesso i concerti mi piace vederli da lontano, dalle tribune, dal fondo della sala, tenendo sotto controllo tutto l'insieme: il palco, il pubblico, il mixer, il cielo (e il soffitto, e le pareti, e gli alberi), il bar, i wc, le sedie vuote. Forse non mi basta la musica, forse mi sembra che solo così si possa catturare il senso di un concerto. Oltre alla musica, tutto il resto.



E' in quel modo che ho assorbito la magia dei Pearl Jam a Milano e poi a Berlino. Non solo da ciò che sentivo provenire dal palco, ma anche da quello che vedevo in platea, sulle tribune, ovunque. Con gli Arcade Fire, nel bosco di St.Cloud, è stato diverso. Ispirato da chissà quale angelo custode del rock'n'roll, sono arrivato con un'ora di anticipo, sacrificando i Roxy Music (pazienza), spingendomi fino a una decina di metri dal palco (no, non sono proprio un animale da transenna), facendo slalom tra migliaia di altre persone consigliate dallo stesso angelo.



Il risultato, dopo un po' di piacevole occasionale internazionale socialità, è stato piantare gli occhi sul palco e non staccarli più. Dal primo galoppante all'ultimo bagnato minuto. Perché, non esagero, gli Arcade Fire sono davvero troppo belli per smettere di guardarli. Anche solo un istante di distrazione è un peccato originale. Come suonano. Come cantano. Come si muovono. Sgraziati, ciondolanti, dolcemente asimmetrici (violinista alta vs. violinista bassa), più sghembi del dottor Caligari, zingareschi tra tamburi e fisarmoniche, eppure anche marziali ed epici (Laika, finalmente ho ascoltato dal vivo Laika!), e con una più recente aggiunta di moderatezza e riflessione (The Suburbs).



Già, The Suburbs. L'ultimo album. Ha fatto storcere molti nasi e al sottoscritto ha richiesto una valanga di ascolti attenti, pazienti, supplementari. Un privilegio concesso a ben pochi altri in quest'epoca in cui ogni settimana ti senti obbligato a consumare venti album nuovi, vedere dieci film, leggere cinque libri, consultare un milione di blog, aggiornare Facebook e magari anche continuare a vivere. Qui il disco però conta poco. Quel che conta è che le sue canzoni - in particolare Ready To Start, The Suburbs, Modern Man e We Used To Wait - si incastrano in modo quasi perfetto nella scaletta. Si fondono con le altre, arricchiscono la tavolozza. E riescono dal vivo a trasmettere quel significato che su album - anche dopo tanti ascolti - non riesce ancora a emergere del tutto.



Il concerto al Rock en Seine è stato eccezionale per varie ragioni. Su Ocean of Noise, l'allegra e già piuttosto nutrita famigliola canadese è stata arricchita da due fiati dei Beirut. Uno era il leader Zach Condon, credo. L'altro non saprei. Non è che sia un grande fan dei Beirut. Il pubblico parigino, però, evidentemente lo è. E non solo prima è accorso in massa al loro concerto, ma poi ha accolto il breve cammeo dei due sul palco degli Arcade Fire con un boato. Attendendo con silenziosa e crescente passione il loro intervento. Rendendo anche quel brano qualcosa di speciale. Per una volta, per catturare l'energia non ho avuto bisogno di osservare da lontano, dal mixer, da una tribuna o da un satellite di Google. Il pubblico l'ho sentito, senza aver bisogno di vederlo. E paradossalmente, la band l'ho vista senza quasi aver bisogno di sentirla. Perché, non so se l'ho già scritto, gli Arcade Fire sono belli da vedere.



Infine, c'è stata la storia della pioggia. Che avrebbe potuto rovinare tutto e invece si è rivelata la ciliegina sulla torta. L'unione tra l'uragano e la fiamma ha partorito l'ultima magia. Unica. Indimenticabile. Anche un po' dolorosa. Perché la band è stata costretta a interrompere il concerto prima di aver suonato almeno altre due  Neighbourhood e Rebellion (Lies). Ma con ultimo guizzo, due chitarre acustiche, un tamburo (e un trombettista dei Beirut) è tornata sul palco per Wake Up. Quello è stato il rito. Tribale, selvaggio, fradicio, alimentato da una partecipazione che non avrebbe potuto essere la stessa - né da sopra il palco, né da sotto - senza l'insostituibile seccatura della pioggia. In fondo, non è quasi sempre così? Le avventure un po' più tribolate, quelle in cui senti il rischio di perdere qualcosa, in cui ti rendi conto di esser lontano dalla perfezione, non sono quelle che vivi in modo più intenso? Che ti lasciano un segno più profondo? Chi lo sa. Wake Up, comunque, quella Wake Up è il mio ricordo numero uno di Parigi. Qui sotto ne trovate una traccia video. Le altre sparse per il post seguono l'intera scaletta, escluse solo Keep the Car Running e Haiti. Avevo davvero bisogno di riprovare, a un concerto, simili emozioni.