In Italia, i Wu Ming sono conosciuti soprattutto per un libro pubblicato ormai oltre dieci anni fa e per di più con un altro nome: Q. All'estero, è diverso. Il loro più grande successo è Manituana (2007), che sta collezionando critiche e recensioni quasi trionfali in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti (come testimonia questa pagina sul sito Einaudi). Dalle nostre parti, invece, Manituana è stato piuttosto snobbato e rapidamente archiviato. Anche a livello di vendite, come testimonia la glasnost del collettivo: 57.988 copie vendute non sono poche, ma Q veleggia verso le 300.000. Non che i francesi, gli inglesi e gli americani debbano per forza avere più ragione di noi. Però non riesco a cancellare l'impressione che in Italia si sia perso (tra critica, pubblico e autori, e non solo in letteratura) il gusto per il respiro internazionale. Per l'ambizione verso un linguaggio/messaggio comprensibile da tutti. Tutto ciò che ha successo qui da noi - nella musica come nel cinema - ha quasi il divieto di uscire dai confini. Rimane rinchiuso tra Alpi e Mediterraneo. Perché è schiavo di una concezione antica e un po' ammuffita di italianità. Deve riguardare il nostro ombelico, la nostra cucina, i nostri bei borghi medievali, le nostre borgate, le nostre Tradizioni con la T maiuscola e niente di più. Deve essere compreso solo da noi. Tutto il resto non è italiano, non ci interessa, è snob. Una storia di indiani irochesi? Che se la puppino i francesi, se proprio hanno voglia. Non è cosa nostra. Ci ingozziamo di contenuti stranieri, amerikani o terzomondisti che siano, ma fatichiamo da morire a entrare noi stessi nell'ottica del network, della contaminazione, della capacità di produrre opere che parlino la lingua ibrida del terzo millennio. Non è un caso se nel calcio accogliamo a braccia aperte gli stranieri-stranieri (e magari proviamo a oriundizzarli ai fini dei campionati mondiali), mentre guardiamo storto i Balotelli o gli altri negri e gialli nati nelle nostre città (la differenza con la Germania, con tutti quei Boateng e quei Khedira nati nelle strasse di Berlino e Stoccarda è lampante). Manituana è un romanzo scritto da italiani che guardano e parlano al wide world. Immersi nel wide world. L'italianità sta nella mente degli autori, nel loro background sociale e umano e non può essere cancellata via. Ma non deve per forza riflettersi nell'opera in una descrizione della Torre di Pisa o in un personaggio che si chiama Giovanni e mangia la pizza. Non deve per forza parlare solo ai cittadini italiani, ma a tutti i cittadini del mondo (compresi gli italiani). Noi non penseremo mai come un newyorchese o un berlinese, ma possiamo creare dei mondi che interagiscano anche con il loro immaginario. Possiamo entrare in quella rete che guardiamo ancora con diffidenza. Possiamo uscire da una provincia che è bella fino a quando non si trasforma in gabbia di folklore. Perfino Frodo, un giorno, salutò la purezza della sua contea. Senza rinnegarla, ma contaminandola e diffondendola. Dobbiamo imparare a parlare la lingua del mondo, contribuendo al suo ricambio generazionale e culturale. Qualcosa che, evidentemente, i Wu Ming stanno facendo con Manituana.