martedì, gennaio 12, 2010

Il copyright che protegge, il copyright che brucia e la fragilità delle nicchie





Cory Doctorow su Boing Boing riprende un articolo in cui Jamie Boyle denuncia i lati oscuri delle leggi sul copyright. In particolare, gli effetti incendiari su parte della cultura, che viene bruciata e dimenticata esattamente come i pompieri bruciavano e cancellavano i libri in Fahrenheit 451. Il succo dell'accusa: per blindare le opere più redditizie (Disney, Beatles...), l'industria dell'intrattenimento è riuscita a ottenere delle normative che non solo sono sempre più estese nel tempo (fino a 70 anni oltre la morte dell'autore), ma che automaticamente applicano il velo del copyright a qualsiasi opera. Anche su quelle che non hanno più valore commerciale e nessun editore/produttore ha più interesse a pubblicare, ristampare, diffondere. Nella stragrande maggioranza dei casi, il risultato è l'oblio dell'opera. Esattamente ciò che cercavano di ottenere i pompieri di Bradbury. Per usare una metafora ittica, il copyright agisce un po' come una spadara: il suo obiettivo sono i pesci più succosi, ma tra le sue maglie finisce impigliato un po' di tutto.

Da questo punto di vista, è chiaro come Internet sia intervenuta come una variabile impazzita e praticamente speculare. Mentre nel mondo "fisico" si fa di tutto per restringere il recinto del pubblico dominio, in Rete (nel P2P, su RapidShare, su YouTube) praticamente è come se ogni steccato venisse abbattuto e tutto confluisse in un pubblico dominio di fatto. Dai video dei Beatles (sopra) a quelli di reinterpretazioni jazz di Eleanor RiDby sulla tv neozelandese (sotto). Il problema è che il Web è un sistema imperfetto. Un oceano dove, sotto i crismi di una sostanziale illegalità, milioni di utenti si sono presi la briga di edificare e riempire la più impressionante biblioteca multimediale di tutti i tempi. Vastissima, spontanea, ma effimera. Limitata dalle preoccupazioni legali e basata sulle abituali dinamiche della massa. E' vero che il popolo di Internet benedice e legittima l'esistenza delle nicchie (la "lunga coda"), ma è anche vero che l'effetto complessivo delle sue interazioni pende pur sempre dalla parte del mainstream. Su eMule di Beatles ne trovi a bizzeffe, mentre della Eleanor RiDby di Marcia Hines non c'è traccia. Se la sua memoria sopravvive, è merito di quell'utente che si è messo a caricare vecchi video della tv kiwi su YouTube.

Spavaldi e infaticabili, i pirati hanno messo una prima toppa all'estinzione delle opere minacciate dal lato oscuro del copyright. Ma è una toppa organica, non organizzata. Ha un funzionamento affascinante, ma offre ben poche garanzie. Nonostante la diffusione di cataloghi legali sempre più grandi (milioni di canzoni su iTunes), nonostante il traffico corsaro sul P2P, ogni giorno siamo inconsapevoli testimoni della scomparsa di chissà quante porzioni della nostra storia e della nostra cultura. In buona parte si tratta solo di ciofeche che meritano l'estinzione? Può darsi. In buona parte. E poi perchè dovrebbero comunque meritare l'estinzione, se è possibile evitarlo?

Una possibile modifica del copyright. Forse si potrebbe inserire l'obbligo a rendere sempre accessibile qualsiasi opera di cui si detiene il diritto di pubblicazione. Il copyright non sarebbe più solo "sfruttamento commerciale dell'opera", ma anche "tutela e garanzia della sua diffusione". In questo modo, probabilmente, gli editori si concentrerebbero sulle opere che ritengono più redditizie e le altre diventerebbero di pubblico dominio e potrebbero essere tranquilllamente salvate, senza paura di ritorsioni legali, su grandi biblioteche libere come l'Internet Archive. Così si sconfiggerebbe anche l'idea - oggi davvero tremendamente anacronistica - del "fuori catalogo". Poi si dovrebbe anche ragionare sulla durata nel tempo delle protezioni. Ma quella è un'altra, spinosissima, storia.