mercoledì, agosto 19, 2020

Spalle al mare. Dieci percorsi nella Liguria Occidentale.



Capitolo 1. Il mondo di Ilaria.
C'era una volta il Marchesato di Zuccarello, fondato da Carlo del Carretto a fine Trecento. Piccolo ma grintoso, si divincolò per secoli tra i Visconti e i Savoia, la Repubblica di Genova e le truppe napoleoniche, fino a essere incorporato nel 1815 nel Regno di Sardegna. L'omonimo borgo è un'oasi medievale a una manciata di chilometri da Albenga, all'imbocco della valle del torrente Neva. Proprio le case a strapiombo sul fiume e l'antico ponte offrono gli scorci più scenografici, quelli che urlano Instagram. Se ti intrufoli nella via principale del nucleo abitato, scopri però che Zuccarello ha un solo padrone. Anzi, una padrona: Ilaria del Carretto. Il suo nome e il suo volto sono ovunque: c'è la statua che accoglie i viandanti alla porta meridionale, l'agriturismo che ne sfoggia il profilo, il sentiero che conduce a ciò che rimane del castello sulla collina sopra il borgo, dove Ilaria nacque nel 1379, figlia del marchese Carlo e di una mamma con nome di bambola: Pomellina Adorno. È un sabato pomeriggio di inizio agosto, fa molto caldo e dinanzi alle rovine del castello ci siamo solo io, un paio di farfalle e il fantasma d'Ilaria. Ha un volto giovane, ventiseienne per sempre. L'età in cui morì, dando alla luce la seconda figlia e ricevendo in cambio la beffarda immortalità legata a un monumento funebre, scolpito da Jacopo della Quercia e cantato da D'Annunzio, Quasimodo, Pasolini. Lo metto tra le foto, ma non cercatelo a Zuccarello: si trova nella cattedrale di San Martino a Lucca (Ilaria aveva sposato Paolo Guinigi, il signore locale). Al castello, il tramonto è ancora lontano. Dal basso, sale e si disperde nell'aria lo sporadico rombo delle moto e delle macchine che attraversano la valle. Un'inferriata rende impossibile visitare ciò che resta dell'edificio. Lo sguardo se ne vola a nord e sulla via del Piemonte incrocia il riflesso di un altro castello, più in alto. «Castelvecchio», sussurra il fantasma di Ilaria con un sospiro di nostalgia. 



Capitolo 2. Natt I Ligurien.
Visto da Zuccarello, Castelvecchio di Rocca Barbena appare come un inganno. Si mostra come un paese moderno, disteso su una collina e dominato da una fortezza, e ti nasconde l'anima antica: il borgo medievale, un fiore di pietra tra rupe e montagna. Per vederlo, bisogna salirci. Per scoprirlo, entrarci. Il borgo è un alveare di vicoli, cunicoli, scalinate. Chi lo ha sognato deve appartenere alla stirpe del dottor Caligari: tutti i muri sono storti, gli angoli sghembi, le linee virate all'espressionismo. Ma la similitudine sta nell'occhio di chi osserva e il mio è perduto nell'horror. Chissà quali sono invece le sirene che hanno ammaliato – mezzo secolo fa – il cantautore svedese Björn Azfelius. Alfiere con la Hoola Bandoola Band del «progg» svedese (la doppia «g» non è un errore, è una scena locale da non confondere con il «prog»), quindi cantautore solitario fedele al socialismo e alle canzoni d'amore, molto famoso in patria (starnutendo contro la fantasia, sul web viene spesso definito il «De André svedese» o il «Bob Dylan scandinavo»), Azfelius scoprì Castelvecchio negli anni Settanta, acquistò una casa-rampicante e la trasformò in musa. Nel documentario «Sjung ingen lovsång», risalente all'anno della sua morte (1999), ci sono delle belle scene ambientate a Castelvecchio: lui che suona e canta in una trattoria del borgo, la surreale passeggiata di un amico, un ricordo finale. Il film è in svedese e sarebbe bello sapere cosa dicono, ma dove non arriva la comprensione basta l'immaginazione. E grazie ai versi di uno dei brani composti a Castelvecchio, «Natt i Ligurien», si può immaginare cosa accadeva dopo l'orario di chiusura delle trattorie, nelle notti più fortunate: «Guarda, che manto di stelle / Senti, le carezze del vento / È notte, è notte in Liguria / Vieni, dormiamo all'aperto / Il vecchio Castello di Rocca Barbena è là ad aspettare il nostro risveglio / Nessuno saprà mai, le cose che ha visto / il vecchio Castello di Rocca Barbena». 



Capitolo 3. Dentro terra.
Nel 1950 alcuni giovani toiranesi decisero che la grotta sopra il paese non era abbastanza. Si infilarono nell'antro e fecero saltare con la dinamite il diaframma che ne ostruiva il prolungamento. Gioventù dalle maniere forti, quella toiranese. Il botto schiuse lo scrigno delle meraviglie che oggi conosciamo come Grotte di Toirano. Un filmato dell'Istituto Luce lo racconta in modo splendido, con pochi mezzi e immaginario da favola. Oggi il percorso scende nelle viscere della terra e del tempo, tra orme di sapiens e femori di orsi. Ma il suo incanto non sta nelle tracce umane o animali, bensì nel paesaggio: un universo che non esiste alla luce del sole e che non rimane mai identico a se stesso. Muta di continuo, goccia dopo goccia, senza fretta. Le grotte sembrano rispondere alle provocazioni degli architetti di Castelvecchio. Qui non ci sono solo angoli sghembi, ma anche curve perfette: modellate dall'acqua e nella tenebra, variabili per foggia e colore, come se ogni cavità fosse affidata a una mente creativa diversa. «Volevate l'espressionismo?», domanda la natura. «Eccolo l'espressionismo». Eppure in quelle linee aliene c'è qualcosa di familiare, nel minerale sembra pulsare l'organico. «Adesso scenderemo nella grotta di Cibele, il punto più profondo», spiega la guida. «Qui si trovano formazioni uniche in Europa, assomigliano a mozzarelle» («splendide concrezioni mammellonari», puntualizza Wikipedia). La grotta di Cibele. La dea della fertilità. Una dea-madre, come la regina-madre che nei cunicoli di «Aliens» attende Ripley. Ahia. Ecco dove avevo già visto queste forme. Tutto appare diverso. Vivo. Affamato. Quella mozzarella sulla destra, per esempio, quella splendida concrezione mammellonare non si sta forse sporgendo verso la turista davanti a me? E non sta aprendosi, lasciando uscire una boccuccia coi denti affilati? «È ora di risalire», ordina la guida. Si è tagliata i capelli, sembra più alta, muscolosa. Ha qualcosa di Sigourney Weaver.



Capitolo 4. La leggenda del Buranco.
Bibliotecario, insegnante, impiegato ai telegrafi, direttore tecnico del Ministero dei Lavori Pubblici, collaboratore e direttore di riviste, traduttore e prolifico scrittore (una sessantina tra saggi storici e romanzi). In bermuda e smartphone, mi sento un po' in imbarazzo mentre leggo la biografia di Baccio Emanuele Maineri. «Questo lascialo stare, ha fatto troppe cose, vuol solo farci sentire delle nullità», suggerisce il mio mental coach immaginario. «E poi è di Toirano, non puoi dedicare due post a Toirano». Ma è una battaglia persa, ho già deciso. Tra le voci della torrenziale biografia, ce n'è una che basta e avanza per far entrare Baccio nel mio piccolo pantheon ligure di mezza estate: è stato tra i primissimi traduttori italiani di Edgar Allan Poe, di cui ha curato un'antologia nel 1869. Si era appena fatta l'Italia e lui contribuiva a fare gli italiani, offrendo loro gatti neri, cuori rivelatori e barili di Amontillado. Come non amarlo? A Maineri è dedicato un bello spazio al primo piano del Museo etnografico di Toirano, ottima ciliegina sulla torta delle vicine grotte. Ci sono un busto bianco, una teca, alcuni libri. Uno si intitola «La leggenda del Buranco. Streghe, folletti e apparizioni in Liguria». Lo si trova anche in .pdf su LiberLiber ed è aperto dalla più bella dedica a un becchino che abbia mai letto. Giuro. Sembra un gioco lugubre, invece è uno struggente viaggio indietro nel tempo, agli anni dell'adolescenza in Liguria, ai sogni, alle libertà e agli amori infranti (ok, c'è di mezzo anche la morte, non è un caso se è il traduttore di Poe). La «leggenda del Buranco» è quella di una voragine che si apre tra le foreste di Bardineto, nei monti sopra Toirano. Secondo la tradizione popolare è una linea diretta con l'Inferno, da cui ogni tanto il diavolo in persona sale a reclamare corpi e anime. Pare che oggi il buranco sia protetto da un'inferriata: per impedire che qualcuno ci caschi dentro o che qualcun altro ne venga fuori?



Capitolo 5. Stregoneria per famiglie.
Prima di Salem e di Loudun, c'è stata Triora. Tra il 1587 e il 1589, in questo paese della Valle Argentina si è svolto uno dei più truci processi per stregoneria in Italia. Molte donne furono incarcerate, con accuse che spaziavano dalla procurata carestia al cannibalismo infantile (avrebbero anche «giuocato a palla con bambini in fasce, palleggiandoseli da un albero all'altro»). Tra superstizione e inquisizione, torture e supplizi, il clima di terrore si sparse nei villaggi vicini: partirono le rese dei conti, una donna morì tra le torture, un'altra precipitando da una finestra. Di questo oscuro frammento del passato si trova traccia nei documenti conservati nel Museo Etnografico e della Stregoneria e nell'angusta Cabotina, la dimora dove si dice che si radunassero le «streghe». Diversa è l'atmosfera che si respira per le vie del borgo, una specie di Disneyland delle Arti Occulte dove si passa con disinvoltura da un lenzuolo che indica il binario 9 e ¾ di Harry Potter a un falconiere con rapaci a tema (un gufo e un barbagianni), fino alle scope volanti radunate in punti-foto (con apposito hashtag) e gli spettacoli di magia per i più piccoli. Una certa stravaganza sembra inscritta nel dna di Triora, se è vero che sullo stemma del paese c'è Cerbero e al fondo di una viuzza compare una replica della grotta di Lourdes. Dal punto di vista del marketing, la strategia funziona: il «paese delle streghe» è l'unico borgo che ho trovato stracolmo di turisti, autobus, famiglie. Ma non tutti sembrano gradire. Prendendo il sentiero che dalla Cabotina porta a un punto panoramico verso l'alta valle, ho sentito un lugubre mormorio provenire dai ruderi di una casa nella roccia. Dentro c'erano tre donne vestite di scuro, sedute attorno a un pentolone. Ripetevano una litania in lingua sconosciuta, mentre la più anziana mescolava un liquido verdastro in cui galleggiavano un paio di occhialini e una palla da quidditch. Me ne hanno offerta una tazza, non era male.



Capitolo 6. Il menhir e la mezzaluna.
Tra le valli Argentina e Arroscia, in provincia di Imperia, c'è un triangolo magico. Fidatevi di un torinese, praticamente li abbiamo brevettati. Il primo vertice è la stregonesca Triora. Il secondo, che definirei druidico-calviniano, è al Passo della Teglia, il valico che unisce le due valli in un tao di montagna: il versante dell'Argentina è luminoso, con lunghi rettilinei e la vista che si perde fino al blu del mare; l'altro, salendo dall'Arroscia, è l'opposto, immerso nel Bosco di Rezzo, selva oscura in cui non filtra un raggio di sole, si vede giusto la strada che scompare sotto la vettura. Sulla cima del colle inizia un sentiero sterrato che entra nella faggeta. Dopo trenta minuti di facile e fresca camminata si arriva al Sotto di San Lorenzo, un anfiteatro naturale nascosto all'estremità del bosco. Qui la magia ha venerabili testimoni di pietra: un altare e un menhir. L'altare si trova in basso, presenta una coppella scavata nella roccia e quando sono passato io qualcuno vi aveva deposto sopra tre fichi (prova inconfutabile che su quei monti vive una divinità lovecraftiana, ancestrale, golosa). Il menhir bisogna cercarlo: è sopra il Sotto, dove si apre la vista sulla valle Argentina. La pietra è lunga due metri, pende più della famosa torre e chissà chi l'ha portata lassù, quando, come e perché. Ho il sospetto che c'entri sempre il dio dei fichi. Se si prosegue oltre il Sotto di San Lorenzo, in una ventina di minuti si raggiunge il Passo della Mezzaluna, ove si sentono gli echi di Italo Calvino. Il passo è uno degli scenari del romanzo «Il sentiero dei nidi di ragno». Il giovane Pin vi arriva assieme ai partigiani, dopo una battaglia con i soldati tedeschi e «nella penombra della notte nuvolosa appare come un prato concavo dai contorni svaniti, tra due elevamenti di roccia circondati da anelli di nebbia». Io l'ho visto in una mattina di sole, senza la nebbia ad aspettarmi o i nazisti a inseguirmi. Non sempre le cose cambiano in peggio.



Capitolo 7. Quella situazione del '57.
A chiudere il triangolo con le streghe di Triora e il menhir di San Lorenzo, è un incantesimo d'amore, vino e avanguardia. Quello che il 28 luglio 1957 fece nascere a Cosio d'Arroscia, ai piedi del Colle di Nava, l'Internazionale Situazionista, movimento artistico-filosofico-sociologico antesignano del '68. Wikipedia usa toni da riunione dei soviet, adatti alla natura radicale del movimento, spiegando che nacque «dalla fusione di alcuni componenti dell'Internazionale lettrista, del Movimento Internazionale per una Bauhaus imaginista, del movimento CO.BR.A e del Comitato psicogeografico di Londra». Le foto appese ai muri del borgo raccontano una storia più leggera, di un gruppo di amici venuti a festeggiare le nozze del pittore cosiano Piero Simondo e di Elena Verrone: il filosofo francese Guy Debord, il pittore danese Asger Jorn, l'artista albese Pinot Gallizio, il musicista Walter Olmo, la pittrice Pegeen Guggenheim (figlia di Peggy). E si sa come vanno le cose: tra un bicchiere di vino, una camminata tra i monti e l'entusiasmo degli anni belli, il movimento viene naturale. Una signora gentile mi guida per il paese, mostrandomi il museo delle erbe, il cartelame della Flagellazione nell'Oratorio dell'Assunta e lo spazio dedicato a Simondo (che vive a Torino e a fine agosto compie 92 anni). Quindi mi conduce alla vecchia casa del pittore, dove fu ospitata la combriccola di amici. È in rovina: la porta aperta, il pavimento di legno sbrecciato, una scaletta aggrappata disperatamente al piano superiore. Sarebbe una casa-museo perfetta per raccontare la storia di questo strano big bang culturale di montagna. In questi giorni ho scoperto che gli scandinavi hanno ristrutturato mezza Liguria, da Castelvecchio (gli svedesi) a Colla Micheri (i norvegesi). «Quando ha visto la casa ridotta in questo stato, una turista danese è scoppiata in lacrime», racconta la mia guida. Popolo dello Jutland, figli di Asger Jorn e di Renée Simonsen, è il vostro momento. 



Capitolo 8. La Puerta del Gol.
Fortunata coincidenza o azzeccata scaramanzia? Nel maggio del 1982, la nazionale di Bearzot svolse ad Alassio il ritiro premondiale, prima di partire per l'avventura in Spagna. L'albergo scelto si chiamava Puerta del Sol, proprio come la piazza-simbolo di Madrid, la città in cui poche settimane dopo avremmo coronato il sogno mundial battendo la Germania Ovest. Chissà se fu scelto anche per quell'omonimia. La Puerta del Sol era un hotel assai particolare, non solo per il nome. Uno di quelli che il suo lusso non lo teneva nascosto: la struttura a castello, con tanto di torre merlata e sormontata da un enorme simbolo solare, è ancora visibile da tutta Alassio. Provate a fare il bagno in qualsiasi punto del litorale, alzate gli occhi verso la collina e lo troverete lì, ad annunciare l'arrivo del sole. Che sull'albergo però è tramontato da diversi anni. Il castello troneggia ancora, ma come un rudere abbandonato, in modo non troppo diverso da quello di Ilaria a Zuccarello. Cambiano tempi e stili, non il destino. Se ti arrampichi fin lassù, ancor più in una giornata in cui il sole è davvero un re assoluto, vieni avvolto dal torbido fascino della decadenza. Le camere sono rifugio per senzatetto; i candidi muri, tela per writers; la piscina, il campo da tennis e le altre meraviglie nascoste all'interno, terreno di esplorazione per gli urbex a caccia dei fantasmi dei luoghi che furono. Tracce del passaggio degli azzurri ad Alassio si trovano anche altrove: nella miniera di YouTube (un servizio tv firmato da Beppe Viola) e sulla parete più famosa della città, il Muretto, con una targa autografata dai giocatori e dallo staff, dolcemente scortata da quelle di Nando Martellini («Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!») e Adriano De Zan (voce dell'altra disciplina simbolo dell'epica sportiva italiana, il ciclismo). Ma ora c'è da pensare al futuro: Mondiali del Qatar 2022. Esisterà un albergo che si chiama come la piazza principale di Lusail?



Capitolo 9. The English Riviera.
Non c'è mascherina che tenga, l'odore dei libri è più forte. E nella Pinacoteca Richard West di Alassio è particolarmente pungente. Il nome non deve trarre in inganno: in questa piccola costruzione che sembra una capsula del tempo, silenziosamente depositata sulla fragorosa strada Aurelia, oltre ai settantasei dipinti di Richard West trovano rifugio i quindicimila volumi della Biblioteca Inglese per il Fondo librario anglosassone, istituzione fondata nel 1881. Se aggiungiamo che l'indirizzo ufficiale è Viale Hanbury 17, viene quasi da prestare giuramento alla regina Elisabetta. «Tornando dall'India, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, molti inglesi si sono fermati ad Alassio», mi racconta con un dolce accento d'oltremanica la signora della pinacoteca e della biblioteca. «Il clima era migliore che in Inghilterra, i prezzi dei terreni e delle case molto più bassi. Io sono arrivata un po' dopo, nel 1959. Avrebbe dovuto essere un'estate di vacanza, sono ancora qua». Le chiedo se la comunità inglese è ancora nutrita. «Siamo rimasti in dodici», mi risponde dopo un veloce calcolo mentale. Richard West si stabilì ad Alassio nel 1890. Non so se tornasse anche lui dall'India, ma era comunque irlandese. Visti a metà agosto, i suoi paesaggi sembrano meravigliosi alieni: sulla spiaggia alassina si vedono solo alberi e pescatori. I quadri di West decorano la seconda sala dell'edificio, la prima è riservata ai libri. Alcuni volumi risalgono alla fine del Settecento, le perle sono numerose. Chissà come mai, mi ritrovo con in mano un «Dracula» di Bram Stoker. È un'edizione del 1925, quando il principe dei vampiri era creatura ancora squisitamente letteraria, solo lambita dal «Nosferatu» di Murnau e non ancora trasformata in icona hollywoodiana da Bela Lugosi. «To travel hopefully is better than to arrive», scrive il misterioso M.K. alla signora Donnelly, nella dedica in prima pagina. Novantacinque anni dopo, suona ancora fresca come una rosa. 



Capitolo 10. In porto, la zattera. 
L'origine di queste storie, il desiderio di scovarle e raccontarle, ha il nome di una divinità nordica: Thor. Qualche anno fa, senza altro obiettivo che non fosse una passeggiata, salii per la rapida e ripida rampa che porta da Laigueglia a Colla Micheri, un nugolo di case di origine medievale poste sul percorso della via romana Julia Augusta. Mi aspettavo qualche angolo pittoresco e una bella vista della Gallinara, non certo di scoprire che quel luogo era stato scelto come rifugio e paradiso terrestre da uno degli esploratori più avventurosi del mondo, uno che amava il profumo delle zattere sull'oceano a colazione. Per spiegare che tipo fosse Thor Heyerdahl, basta citare la sua impresa più famosa. Convinto che i popoli dell'Oceania discendessero da quelli del Sudamerica, l'esploratore norvegese decise che l'unico modo per dimostrare la sua teoria era attraversare il Pacifico con una zattera costruita con materiali e tecnologie precolombiane: il Kon-Tiki. Salparono in sette (sei uomini e un pappagallo) il 28 aprile 1947 dal Perù e raggiunsero l'atollo di Raroia, nella Polinesia Francese, il 7 agosto: dopo 101 giorni e 7000 chilometri di navigazione. In realtà, a bordo c'era anche lo zampino del Novecento: una radio amatoriale e una macchina da presa da 16mm, con cui Heyerdahl riprese le immagini del film «Kon-Tiki», premio Oscar come miglior documentario nel 1951. Ma si tratta solo di una delle tante spedizioni che Thor condusse nella sua mitologica vita, raccontate in una sala del Museo Dabroi di Andora, con libri, disegni, foto, documenti e modellini. A Colla Micheri, dove vive il figlio Bjørn, c'è la tomba dell'esploratore, qui morto nel 2002. Si trova in un piccolo recinto sul sentiero che porta a Capo Mele. Una strana oasi di pace, dove i rumori della natura non respingono ma si mescolano a quelli dell'uomo, che salgono da Laigueglia. Con un'apertura sulla baia, come se gli alberi si fossero scostati per lasciargli una finestra sul mare.