Co-fondatore di Napster, ex-presidente di Facebook, Sean Parker osserva perplesso il titolo di questo post |
Certo, non avrei immaginato di sentirmi obsoleto così presto, o almeno che il mio mondo lo diventasse così in fretta. Non avrei immaginato di ritrovarmi, a trent’anni, a fare archeologia sulla mia adolescenza. Ma qualcosa è davvero cambiato in un istante. Tutt’a un tratto — accadeva all’incirca un decennio fa — gli hard-disc dei nostri computer erano affollati di musica, musica messa insieme alla rinfusa, dove le ultime hit commerciali convivevano accanto ai bootleg introvabili, le une e gli altri neppure separati dall’intercapedine dignitosa di una cartella. Schermate e schermate di file mp3 disposti in un irriverente ordine alfabetico: un’orgia di suono. Nei primi tempi quella visione mi dava le vertigini, come se da bambino mi fossi imbattuto nella casa di marzapane in mezzo al bosco. La fame di canzoni di un’intera generazione, una fame che ci era apparsa insaziabile, era all’improvviso scomparsa. Potevamo disporre di tutti i dischi, subito e senza sforzo. Voltandosi a guardare la collezione di cd messa insieme in un decennio e conservata fino ad allora con sacralità, c’era da provare perfino un po’ di imbarazzo. Quelle raccolte, con il loro ingombro, ci avrebbero perseguitato di casa in casa, e ogni volta sarebbe sembrato più bizzarro dover trovare loro un posto da occupare. Ma dopo la scorpacciata iniziale di Napster e eMule, abbastanza presto in effetti, emerse anche una sommessa nausea, come un’indifferenza latente a tutto ciò che potevamo ottenere così in fretta e copiare all’infinito da un supporto all’altro e conservare senza troppi riguardi. Una sensazione che fino a oggi non ha fatto altro che aggravarsi. Abbiamo scoperto che la passione per la musica non era incorruttibile, ch’essa si fondava anche sull’aura di lusso e irraggiungibilità che circondava l’oggetto-disco (sarà poi tanto diverso il feticismo per i dispositivi elettronici che l’ha prontamente rimpiazzata?). Venuta a mancare la smania del possesso, della conquista, perdevamo tutti quanti anche una percentuale di godimento. Quando si parla oggi del grande tramonto dell’industria discografica, si tende a minimizzare, ad affermare che in fin dei conti a essere cambiato è soltanto il modo di fruizione. Ma non è così. Ci vergogniamo di ammettere che l’accessibilità alla musica ha infine deprezzato anche la musica stessa. Non ne ha modificato la qualità intrinseca, ovvio, ma ha diminuito il valore che siamo disposti ad attribuirle. Per questo, una bella canzone del presente, per quanto innovativa e provocatoria, non eguaglierà mai "Smells like Teen Spirits", non potrà anelare ad altrettanta gloria, e i Beatles, beati, resteranno imbattuti per l’eternità.
Avendo scritto un libro come La musica liberata, in cui si celebrano apertamente le virtù di alcuni dei passaggi citati nell'articolo di Giordano, ho un certo imbarazzo nell'ammettere di provare spesso la stessa "sommessa nausea" di fronte alla massa informe di canzoni, album, video live e altri frammenti musicali che ci aggrediscono ogni giorno su Internet. E di aver iniziato ad adottare una serie di rigorose tecniche per far fronte allo tsunami. Per esempio, ascoltare bene un unico nuovo album alla settimana (in questi giorni tocca a My Favourite Faded Fantasy di Damien Rice: ah, il romanticismo depresso...).
Se però rifletto bene su questa nausea e sulla sua storia, mi rendo conto di una particolarità temporale: nel 2009, l'anno in cui scrissi La musica liberata, un decennio esatto dopo l'apparizione di Napster, di lei non c'era ancora traccia. E così è stato per almeno altri due anni. Andando a memoria, i primi cattivi umori hanno fatto capolino solo intorno al 2011, accelerando vistosamente negli ultimi quindici/venti mesi. Eppure nel 2009 i miei hard disk erano già rigonfi di MP3. Ai loro massimi storici, tra l'altro, visto che il neonato Spotify stava già iniziando ad arginare il download e ad ampliare i miei orizzonti in altro modo, permettendomi di mettere un po' d'ordine e legalità nel caos. Non è strano? Non avrei già dovuto sentire allora il peso dell'abbondanza digitale? Come mai questo è accaduto solo due anni dopo? Cosa è stato a cambiare le cose?
Dal titolo di questo post, avrete già intuito chi è il mio colpevole preferito. Io credo che l'abbondanza da sola non ci abbia fatto male. Di certo ha deprezzato il valore della musica registrata, portando nuove dinamiche ed enormi problemi sul fronte economico/industriale (poi riverberatisi in tanti altri settori). Ma in fondo sono convinto che noi ascoltatori stessimo sviluppando in modo abbastanza naturale gli anticorpi per gestire quella massa di contenuti. La nausea - almeno nel mio caso - è arrivata dopo. È arrivata con i social network. Con il modo in cui la musica ha subito una mutazione non tanto di valore commerciale o numerica, bensì esperienziale: non più solo qualcosa da ascoltare, ma qualcosa da raccontare. Da commentare, fotografare, twittare, linkare, condividere, stroncare, bestemmiare. Subito dopo il primo ascolto, a volte addirittura durante il primo ascolto. Sempre: in ogni minuto del giorno. Tutta: la musica bella, la musica media, la musica brutta, la musica necessaria, la musica inutile. Tutti: centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone. Prendendo posizione, senza se e senza ma. Non so se Paolo Giordano abbia fatto uso dei social network, può darsi che stiamo parlando di due nausee diverse, nelle cause e negli effetti. Però credo che Facebook e più in generale il social web - oltre a rubarci molto prezioso tempo di lettura/ascolto/visione/riflessione - abbiano stravolto il nostro modo di percepire/vivere la musica (e il nostro piacere nell'ascoltarla) molto più di quanto abbiano fatto Napster, Soulseek, eMule e gli altri moltiplicatori di MP3.
Questo non vuol dire che non ci sia il problema dell'abbondanza. Bisogna imparare a controllarla e non solo nella musica: anche nelle foto di gattini, nelle storie di sentinelle in piedi, nei video buffi, nella distribuzione/condivisione di news, nelle indignazioni usa-e-getta. Gli input sono molteplici ed è una lotta che si conduce su più livelli, più media, più linguaggi. La mia pratica di ascolto settimanale nasce essenzialmente come antidoto contro l'abbondanza. Ma funziona bene - almeno per ora - solo perché è accompagnata e protetta da una robustissima paratia contro i social network: nei sette giorni di ascolto, sull'album in questione ammetto solo la lettura di recensioni (le più lunghe e dettagliate possibili, niente flash da cinque righe) di una manciata di siti/giornalisti/blogger di fiducia. Tutto il resto è vietato. In particolare ciò che proviene dalla conversazione social: niente lodi, niente invettive, niente status, niente tweet, niente "che merda!" buttati a casaccio, giusto per segnare il territorio. Ci siamo solo io, la musica che scelgo nell'oceano e un supporto critico per comprenderla meglio. E pian piano la nausea sta lasciando spazio all'antico stupore nel trovarsi a portata di mano - e poter selezionare liberamente e personalmente - la ricchezza e la varietà della creatività umana.