Il patto era questo: nei loro concerti italiani i Pearl Jam avrebbero suonato almeno cinquanta canzoni diverse. Me l'aveva promesso Eddie Vedder, in sogno, in cambio delle indicazioni per un'osteria. Alla fine ne hanno suonate cinquantuno, in due serate da spremicuori e sudafuori. Questo è il mio piccolo, compilativo, discografico, soggettivo, youtubico tributo. Per ringraziarli e per provare a scolpire nella pauta di Internet un ricordo del bel che è stato.
Ten (1991, 9 canzoni)
L'album più famoso, quello che proiettò la rockband nell'Olimpo, nell'ultima stagione in cui una rockband poteva davvero aspirare all'Olimpo. In Italia è stato il disco più suonato: doppietta prevedibile per Black (in insolita posizione iniziale, alla luce del giorno, quasi a volerne smussare l'epica), Even Flow e Alive. Un po' meno prevedibile per Jeremy e Why Go. Addirittura tripletta per Porch, presentata da Vedder anche in delizioso unplugged solitario a San Siro, sul fischio d'inizio di quello strazio chiamato Italia-Costa Rica. Una sola performance per Release, Deep e Once: quest'ultima, dolce e scalmanato regalo d'addio sotto il cielo carsico, prima del triste trittico Alive/Rockin' in the Free World/Yellow Ledbetter (triste perché segnato dalla consapevolezza della fine). All'appello sono mancate solo Garden e, ahimè, una Oceans in cui speravo.
VS (1993, 5 canzoni)
Due doppie: Elderly Woman Behind a Counter in a Small Town e soprattutto Rearviewmirror. Ovvero, la canzone perfetta. Quella che ti rinchiude nell'occhio del ciclone, falsa quiete in cui gli strumenti si rimbalzano nervose scariche elettriche, in attesa del ritorno dell'uragano. A quel punto potevano atterrare anche gli omini verdi, nessuno se li sarebbe filati: tutto ciò che contava era urlare “saw things/clearer/once you/were in my/rearview mirror”. E diciamolo: anche Go, Animal e Daughter non sono state affatto male.
Vitalogy (1994, 6 canzoni)
Per molti fan, l'album più bello. Di certo una raccolta in grado di innescare tonnellate di emozioni. Attraverso i singoloni Better Man e Corduroy (suonati a entrambi i concerti, la seconda un po' naufragata nell'ubriachissima serata di San Siro) o passando per merce più rara e preziosa come Nothingman (Milano), la tostissima Spin the Black Circle (favolosa nell'intermezzopunk di San Siro assieme a Lukin), Whipping (Venezia). A chi scrive, il coccolone è però piombato con Not For You. Credo che persino la mia panettiera sapesse che l'aspettavo tanto. L'hanno suonata. Just For Me.
No Code (1996, 2 canzoni)
Who You Are e Lukin a San Siro. Troppo poco. Ho ancora davanti agli occhi la “scaletta dei miei sogni” compilata nell'attesa triestina, tra un castello di Miramare e una frittura di calamari: c'erano Off He Goes, Smile, Hail Hail, Sometimes, Present Tense...
Yield (1998, 5 canzoni)
Ben più gettonato di No Code. Questa è una colpa, felloni. A maggior ragione tenendo conto degli scivoloni su Given To Fly (testo dimenticato a San Siro), dell'ostinazione a riproporre MFC (che è stata scritta in Italia e quindi temo non mancherà mai da queste parti), di una Pilate parecchio inattesa (dal sottoscritto) ma comunque non trascendentale. È stato molto bello risentire Low Light, quello sì. Ed è sempre fottutamente catartico scatenarsi su Do The Evolution (più a Trieste che a Milano).
Binaural (2000, 1 canzone)
Ti godi Thin Air, sogni Light Years e scrivi il Manifesto per il recupero degli album centrali dei PJ.
Riot Act (2002, 0 canzoni)
(... Manifesto nel quale però, francamente, questo album può anche non rientrare)
Pearl Jam (2006, 3 canzoni)
Due canzoni e mezza a Trieste: Life Wasted (+ Reprise) e Come Back (coreografata dal pubblico in un modo che dimostra che c'è vita oltre agli accendini). Chi scrive non lo ama, ma bisogna dare all'avocado quel che è dell'avocado: nell'entusiasmo generale anche Life Wasted è uscita alla grande.
Backspacer (2009, 3 canzoni)
Questo sì, invece... chi scrive lo ama davvero e ne avrebbe voluto di più. Romanticonirica e con un decisivo contributo del pubblico Just Breathe a San Siro; precise e taglienti Get Some e Unthought Known, nella magica cavalcata al Nereo Rocco. E chissà se avrò mai l'occasione di sentire live Speed of Sound...
Lightning Bolt (2013, 7 canzoni)
Ebbene sì, ti ritrovi persino a spezzare una lancia per questo disco, bistrattato da tutti eppur uscito con dignità dal weekend. Ci sono i brani più solidi del previsto (Sirens, peccato solo per gli “ah ah, oh oh” finali), quelli che vanno bene come sono, tra chitarroni e aperture melodiche (Lightning Bolt, Mind Your Manners, Swallowed Whole), quelli che hanno meno sprint dal vivo che su disco (Getaway) e quelli che invece guadagnano punti (Infallible). Anche la ballata al chiaro di luna (Yellow Moon) ben risplende e peccato per la bella Pendulum bloccata alla dogana. Non che Lightning Bolt diventi super, ma dimostra di poter offrire qualche tassello – con juicio, mi raccomando! - anche ai futuri tour.
Extra, cover, b-sides (10 canzoni)
In realtà, il disco più suonato nella binotte italiana – ancor più di Ten – è quello delle canzoni extra-album. Lo si sapeva: il repertorio è talmente ricco che c'è l'imbarazzo della scelta e la quasi matematica sicurezza di sorprendere il pubblico. Non certo con State of Love and Trust (sempre lodata sia), Yellow Ledbetter o con la cover di Neil Young Rockin' in the Free World (bloody audience di Trieste, perché chiederla con uno striscione di trenta metri quando l'avevano già suonata a Milano e in scaletta era prevista Baba O'Riley degli Who?). Piuttosto con Down (Trieste), Leatherman (Trieste), Setting Forth (Milano, dalla soundtrack di Into the Wild), Untitled (Milano), Let Me Sleep (Trieste). Credo che per buona parte dei fan, l'extra più apprezzato sia stata la suite triestina Chloe Dancer/Crown of Thorns, epoca Mother Love Bone, ma per chi scrive la gioia maggiore – nonostante il titolo – è arrivata da Sad, finalmente sentita dal vivo, assieme a tanti amici a San Siro.
Epilogo
San Siro e il greatest hits: si sapeva, è stato uno spasso. Trieste e le nicchie: si sperava, è stato un altro spasso. Il pubblico ha reagito bene a entrambe le scalette, decretando l'ingresso forse definitivo dei Pearl Jam in quella categoria artistica privilegiata, ristretta, coccolata, protetta dai fan che fanno incetta di biglietti persino negli stadi, con quel sottile ed elitario piacere nel tener fuori dai cancelli estranei e borbottoni da Facebook. A spanne, anche l'età media coincide con le previsioni: dai 30 ai 45 anni. Sirens non conquista nuove legioni di ascoltatori. Il ricambio generazionale non c'è e a parer personale non serve nemmeno. Al proprio pubblico, i Pearl Jam vanno bene così. Per i Pearl Jam, suppongo valga il discorso inverso. C'è molto conservatorismo nell'aria, me ne rendo conto. E ancor più springsteeanesimo: nella decisione di rinunciare al gruppo d'apertura, in quella di varcare la soglia delle tre ore a concerto e persino nella comparsa tra il pubblico dei primi bambini. Dismesse le camicie di flanella, il popolo del grunge sta ormai prolificando. Ma allora, carissimi Pearl Jam, che ne dite di completare l'opera e imitare anche la regolarità con cui il Boss torna in Italia? Mica per un nuovo tour dovremo aspettare altri otto anni, eh!