mercoledì, aprile 02, 2014

Cinque anni dopo La musica liberata, un po' schiacciati tra modello cinese, abbondanza e social caos



Ieri sera ho fatto un'amabile chiacchierata in diretta con Inkiostro e Pirex, conduttori della trasmissione Impronte Digitali su Radio Città Fujiko di Bologna. A cinque anni dalla pubblicazione di La musica liberata, il tema di fondo era – più o meno – ciò che è successo dal 2009 al 2014 nel mondo della musica su web. Cosa è cambiato? Cosa sta cambiando? Cosa cambierà?

D'impulso, la prima risposta che ho dato è stata che la musica sta lentamente tornando a essere “ingabbiata” dalla grande industria. Servizi come Spotify e strumenti come gli smartphone hanno contribuito a restituire parte di quel controllo che la stagione del P2P aveva strappato alle major. Con una differenza sostanziale rispetto al passato: anche il pubblico, in fondo, ci ha guadagnato. A ribellarsi sono rimasti alcuni musicisti, preoccupati di quell'erosione dei profitti derivanti soprattutto dai modelli in streaming (erosione sul breve termine o strutturale?). Gli utenti sembrano invece contenti di Spotify, di YouTube, di Shazam, di Soundcloud, delle condivisioni su Facebook e di tutta quella batteria di strumenti a disposizione per ascoltare la musica e farci qualcosa.

È una visione un po' “cinese” del paesaggio, con le major nel ruolo del partito comunista: “controlliamo di nuovo la musica, ma permettiamo di farci talmente tante cose e la rendiamo disponibile a prezzi talmente abbordabili rispetto al passato, abbracciando anche modelli e tecnologie all'avanguardia, che il pubblico ha la percezione di vivere in un sistema sostanzialmente libero”. E quando il ribelle Thom Yorke alza la voce contro Spotify, dal basso si alza un feedback assai meno entusiasta, adorante, plebiscitario rispetto ai tempi dei gagliardi arcobaleni illuministi di In Rainbows.

Ma questa è solo la punta dell'iceberg: quella che emerge ben visibile, perché si riferisce al mondo musicale che conosciamo. Al “modo” musicale che conosciamo. Quando Pirex e Inkiostro mi hanno chiesto di sbirciare nel futuro, tutto quello che sono riuscito a descrivere/immaginare è una società ben diversa da quella attuale, nella quale la musica pop verrà probabilmente percepita come qualcosa di altro rispetto a ciò a cui eravamo abituati. Non si tratta più di ipotizzare una tecnologia che renda più agevole e attuale il nostro ascolto tradizionale (come poteva essere la nascente Spotify nel 2009), quanto quello di comprendere che il panorama tecnologico sta forse avviando una trasformazione ben più profonda: sta cambiando l'identità stessa della musica futura. O meglio, quella che sarà l'identità a lei assegnata dalle nuove generazioni.

Mi rendo conto che è un discorso più vago e fumoso di una centuria di Nostradamus. Nei prossimi mesi forse riuscirò a formularlo meglio o lo abbandonerò del tutto, chissà. Al momento, l'idea è che i processi attivati dalle tecnologie digitali (e soprattutto dal modo in cui le stiamo utilizzando) stiano avendo un effetto radicale sulla natura della musica. Da un lato, è sempre più muzak, sempre più sottofondo in flusso continuo, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Quand'è l'ultima volta che vi siete fermati ad ascoltare un album senza fare altro (ma proprio nient'altro: nemmeno guidare o correre al parco)? Dall'altro, viene creata/distribuita/fruita come contenuto sempre meno autonomo, bensì associata a film, video, giochi, applicazioni, pubblicità, concerti, discussioni social. Già solo il fatto che YouTube (un sito di video) sia il canale preferenziale utilizzato per ascoltarla e farla circolare mi sembra sintomatico. A tutto ciò si aggiunge l'effetto sempre più detonante di quella frammentazione del social web a cui faceva di recente riferimento Clay Shirky.  E, last ma forse first, l'impatto dell'infinita abbondanza.

Non solo si producono molti più contenuti che in passato, ma si stanno moltiplicando all'infinito (e dunque polverizzando) i canali attraverso cui questi contenuti vengono distribuiti, discussi, masticati, buttati, recuperati, contaminati, remixati. Tra cover, mix, mash up, demo, unplugged e quant'altro, la stessa singola “canzone” ormai ha mille volti: una qualsiasi ricerca su YouTube vi farà da prova. Seguendo questo ragionamento, anche il rinnovato dominio dei blockbuster diventa molto più aleatorio ed effimero di quanto non sembri. Ciò a cui stiamo assistendo e in cui stiamo vivendo è in realtà una sequenza di grandi esplosioni nucleari, istantanee e in fondo nemmeno così radioattive: un giorno danno una scossa ai gangli nervosi dell'intero pianeta, il giorno dopo sono già lacrime nella pioggia. Che importanza ha oggi quel signore coreano che meno di due anni fa conquistò il mondo ballando come un fantino? E quella cosa chiamata Harlem Shake? E che dire della povera Lady Gaga, che non ha nemmeno ancora compiuto il primo decennio di vera stardom e - per non affondare nell'oceano dei tweet - è già costretta a farsi vomitare addosso su un palco?

Alcune sfumature di questo discorso potrebbero suonare non solo cacofoniche, ma anche apocalittiche. In realtà non mancherebbe il bicchiere mezzo pieno. È la scia migliore lasciata dalla lunga coda della cometa: il fatto che la frammentazione non ha ucciso le nicchie. Anzi. Magari le ha allontanate ancor più dal mainstream – con grande e legittima frustrazione di chi le alimenta e vorrebbe anche sopravviverci – ma le ha rese paradossalmente più forti, concrete e accessibili che mai. Sia nella forma (vinile, cd, MP3, streaming, app) che nel contenuto (cori russi, musica finto rock, new wave italiana, free jazz punk inglese, nera africana), oggi chiunque può vivere la sua musica nel modo che preferisce e con una ricchezza di risorse nettamente superiore rispetto al passato.

C'è però un problema: quindici, dieci o anche cinque anni fa avremmo goduto come mandrilli di una simile condizione, ma oggi è il 2014 e il meccanismo dei social media – con il suo confronto perenne con ciò che ci circonda, che non riconosciamo, che non ci piace – quasi ci impedisce di rendercene conto. Quante ore alla settimana dedichiamo alla musica che ci piace e quante a discutere/ridicolizzare su Facebook e Twitter quella che non ci piace? Pensiamo che sia più importante ascoltare una canzone o prendere una posizione pubblica su quella canzone? Anche questo è un piccolo tassello della complessa trasformazione della percezione della musica, di cui forse non si riesce ancora a vedere bene i contorni ma che mi sembra ormai avviata (e che nelle nuove generazioni non si potrà nemmeno definire trasformazione, bensì originale abitudine).