lunedì, marzo 24, 2014

Un dilemma del giornalista web: segnalare o non segnalare una correzione?

Fonte: The New York Times

“Verba volant, scripta manent”. Un tempo. Oggi non è più così, almeno su Internet: lì gli scripta non manent, si possono cancellare, manipolare, trasformare. Anche le parole che vi trovate davanti in questo momento forse non sono le stesse che altri visitatori del blog hanno letto minuti/giorni/mesi fa: può darsi che abbia cambiato una virgola, un verbo, un intero paragrafo. O forse no, forse tutto è rimasto identico. Ma il dubbio, potenziale, c'è. Sulla carta l'inchiostro è fisso, sul web è liquido.

È una novità molto potente, affonda le radici nell'avvento dei word processor e i giornalisti/redattori hanno imparato a usarla con disinvoltura. Troppa? Dipende. La demanentizzazione della parola scritta non è per forza un brutta cosa: da un lato, permette di rimediare a refusi, lapsus, errori (che sarebbe stato meglio non fare, ma non avrebbe alcun senso non correggere); dall'altro, è alleata nella copertura delle notizie in corso, che richiedono aggiornamenti e integrazioni. 

Una straordinaria creatura internettiana che si espande e domina il nostro tempo grazie a questa nuova caratteristica della scrittura è Wikipedia. Immaginatela come un organismo vivente che si aggiorna e cambia con il mondo che cambia: quello è il suo vantaggio davvero irresistibile rispetto alla carta. Oggi Wikipedia sa già che l'ex-presidente primo ministro spagnolo Adolfo Suárez è morto e che la Crimea è in bilico tra Russia e Ucrania. Le enciclopedie sui nostri scaffali non lo sapranno mai.

Ma un conto è un'enciclopedia, un altro è un articolo. Come devono essere segnalati i cambiamenti? Il giornalista/redattore dovrebbe avvertire sempre il lettore quando modifica un articolo rispetto alla prima forma di pubblicazione? Se non lo fa vuol dire che è in malafede? Rispondere non è semplice come potrebbe sembrare. Un esempio che mostro spesso nei corsi di giornalismo e scrittura digitale è l'articolo in cui The New York Times annuncia la morte di Michael Jackson, nell'estate del 2009.




Al fondo del testo su web si trovano tre correzioni apportate nei giorni successivi. Riguardano errori di varia natura: un virgolettato, un quartiere, un numero, il titolo di una canzone. È un esempio interessante per due ragioni: la prima è che l'articolo è lo stesso uscito, forse in forma leggermente diversa, sull'edizione di carta, dove inevitabilmente le modifiche non possono essere state fatte e gli errori sono rimasti; la seconda è il dettaglio con cui vengono segnalate le correzioni.

Ma deve essere sempre così? La deontologia ti obbliga ad avvertire il pubblico quando sostituisci Black and White con Black or White? Bisogna segnalare tutti i refusi, tutti i lapsus, tutti gli sbagli? Se io mi accorgo, dopo la pubblicazione, di aver usato nella stessa frase il sostantivo “burloni” e l'aggettivo “burleschi”, posso cancellare uno dei due termini silenziosamente (come ho fatto fare) o devo comunque avvertire il pubblico del cambiamento?

Il 14 marzo Ryan Chittum ha raccontato su Columbia Journalism Review una sua disavventura, legata a un testo modificato. Dopo aver notato un errore numerico su un articolo pubblicato su The Guardian e relativo al nuovo sito di data journalism di Nate Silver, Chittum lo ha segnalato su Twitter. A stretto giro di tweet, Chittum è stato a sua volta corretto da Nate Silver, con un'allusione al rapporto tra giornalisti e numeri, al centro di molte polemiche proprio attorno al data journalism.


Cosa era successo? “Non mi ero sbagliato, come ho scoperto grazie a un altro lettore che aveva visto l'articolo originale”, spiega Chittum. “The Guardian aveva appena riscritto il passaggio sbagliato, senza segnalarlo con una linea sopra (lo strikethrough) o in altro modo”. Morale della favola, di fronte ai 670,000 follower su Twitter di Nate Silver, Chittum è diventato un altro protagonista della barzelletta “quanti giornalisti ci vogliono per calcolare una percentuale?”.

Di fronte a una storia del genere, il mio primo pensiero è stato: “Ti sta bene, Chittum, così impari a fare il maestrino che segnala gli errori su Twitter” (una pratica che purtroppo appare sempre meno finalizzata al desiderio di migliorare la qualità dell'informazione e sempre più a quello di mostrare quanto si è bravi a scovare gli errori altrui e quanto si è deliziosamente arguti nel denunciarli). Ma il dilemma sulla corretta segnalazione delle modifiche rimane.

In particolare quando non ci si limita a correggere piccoli errori ma si modificano parti sostanziali degli articoli – ragionamenti sbagliati, affermazioni infondate, considerazioni deboli – magari per correre ai ripari dopo esser stati messi alla berlina su Facebook. Non credo esista “la” soluzione giusta: probabilmente basta un po' di buon senso (e nel mio caso, un'ulteriore rilettura di controllo). E forse non sarebbe male che i giornali spiegassero al pubblico le proprie linee guida in materia.