mercoledì, gennaio 22, 2014

Un giornalista deve ancora saper scrivere? (appunti di giornalismo digitale)

Fonte immagine: Giò Fuga Type


La domanda nel titolo sembra una provocazione, in parte lo è, ma deriva dalla concreta constatazione di quanto - sempre più spesso - è richiesto oggi al giornalista attivo in ambito digitale: più che scrivere un vero articolo, deve twittare, aggiornare status, tradurre/riassumere articoli stranieri, produrre brevi notizie tipo agenzia di stampa. Il tutto alla massima velocità possibile, in modo da apparire online prima degli altri e conquistarsi i like e i retweet del primo arrivato. A volte basta anche concentrarsi sul titolo: azzeccando quello giusto, si rimbalza come un sasso piatto sui social network, i contatti si impennano e pazienza se poi il testo/contenuto a cui fa riferimento quel titolo è così così. 

Per soddisfare queste esigenze comunicative, in effetti non c'è poi questo gran bisogno di saper scrivere. O meglio, bisogna imparare a gestire un altro tipo di linguaggio: quello dei social network, dei 140 caratteri su Twitter, della produzione di paragrafi standardizzati, tutti identici, perfetti per essere indicizzati su Google News o motori di ricerca. Sono competenze importanti, da un certo punto di vista necessarie nel panorama digitale, che tuttavia si allontanano da quella che un tempo era considerata la "bella scrittura". O semplicemente, la "scrittura corretta". E gli effetti sono evidenti. 

A complicare le cose, ci si mette anche l'obbligo - tutto digitale e sempre più pressante in una società always on - di seguire una notizia in corsa, in real time, aggiornando un articolo man mano che si viene in possesso di nuovi elementi. Esempio recente: il mancato scambio dei calciatori Guarin e Vucinic tra Inter e Juventus. Tra lunedì 20 e martedì 21 gennaio, i giornalisti sportivi dei principali siti d'informazione hanno tentato disperatamente di modificare i loro articoli con le notizie più fresche, mantenendoli almeno vagamente scorrevoli e sensati. Nella maggior parte dei casi con risultati dall'italiano traballante, seguendo una sorta di wikipedizzazione della scrittura (in situazioni simili, spesso la strada migliore è quella di usare lo stratagemma della diretta: piccoli paragrafi aggiunti in stile blog all'inizio della pagina; molti siti, anche in Italia, ne fanno già un ottimo uso). 

Fatto sta che il decadimento della scrittura in ambito giornalistico appare sempre più evidente. E viene davvero da chiedersi: nel 2014, vista la natura del mezzo tecnologico, un giornalista digitale deve ancora saper scrivere?

Sottolineando come ciò non voglia dire rifiutarsi di imparare a utilizzare i moderni strumenti di comunicazione digitale, a mio parere la risposta è sì. Per almeno tre motivi:

a) Innanzitutto, perché non si può e non si deve giustificare la perdita della scrittura (... se non quella bella, almeno quella corretta) solo con la scusa che bisogna essere più veloci e ottenere più like/views/retweet/contatti. Prendiamolo pure come un diktat di natura etica: la tecnologia modifica una lingua, è inevitabile, ma non possiamo lasciare che la inaridisca o la uccida solo per un suo interesse che non corrisponde a un miglioramento della condizione umana e della società. Se proprio devi uccidere qualcosa, ok, fallo, ma ci deve essere un vantaggio per l'umanità: non può essere solo per le esigenze di Twitter o di Google (e dei modelli intrecciati di business che ne conseguono);

b) Perché la pubblicazione di materiale originale e di valore (a livello di complessità, contenuti, scrittura) è in realtà un'arma vincente, forse l'unica rimasta ai media per sperare di rimanere rilevanti nel panorama informativo digitale. Sei davvero un giornalista o un semplice megafono di contenuti altrui? Questa è una domanda che credo dovrebbero porsi in molti. E ho il sospetto che un discreto numero di addetti ai lavori, soprattutto quelli più pragmatici, tenderebbe a rispondere che sì, un giornalista/giornale, a maggior ragione se italiano, oggi è ormai davvero soprattutto un megafono di contenuti altrui. Siamo tutti satelliti del New York Times, del Guardian e dei profili di personaggi famosi sui social network (può anche darsi che abbiano ragione, ma è bello sperare ancora il contrario...);

c) Perché sul lungo termine il giornale che perde la sua capacità/qualità di scrittura su web non diventa altro che una vocina sbiadita nella rumorissima conversazione in corso nelle arene sociali. Giorno dopo giorno, il livello dei contenuti si appiattisce e si confonde sempre più con tutto ciò che nuota nell'oceano dei social network. Il rischio è che per qualche mucchietto di contatti in più oggi, si stia correndo il serio rischio di buttare via tutto il futuro. Perché chiunque è bravo a mettere tette e culi in un boxino o a twittare una frase di buon impatto. E a un certo punto, se non l'ha già fatto, il lettore potrebbe iniziare a porsi un'altra domanda, diversa da quella del titolo: "ma se scrivono peggio di me, non contestualizzano e spiegano nulla, si limitano a riassumere, linkare e twittare esattamente come faccio io sui miei profili personali, perché dovrei continuare a leggerli?"

Riflessioni e appunti in vista di un corso di giornalismo digitale (Scuola Holden, 11 febbraio - 11 marzo 2014)