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(in genere il Pozzo di Cabal è il regno delle cose frivole: canzonette, videoclip, cianfrusaglie tecnologiche... Il massimo della serietà è quando mi arrabbio contro alcuni aspetti del copyright. In questi giorni, però, non riesco a non pensare a quanto sta accadendo al di là del Mediterraneo. E a ciò che potrebbe voler dire per il futuro del nostro pianeta. In negativo? Non necessariamente. Anzi, forse molto in positivo. Per questo, stasera, nel Pozzo ci finiscono un po' di personali riflessioni, idee e prospettive sul tema...)
Il 2011 è l’anno delle rivoluzioni nei paesi del Nord Africa. Ieri la Tunisia e l’Egitto. Oggi, in modo più drammatico, la Libia. Domani, chissà. E’ un'incredibile pagina di storia che si sta scrivendo sotto i nostri occhi. E di fronte alla quale, come paese e – soprattutto – come Unione Europea, abbiamo il dovere di non restare solo spettatori passivi e terrorizzati. Se l’opinione pubblica è scioccata di fronte alle notizie che arrivano da Tripoli, da Bengasi, e da tutte quelle città di cui scopriamo l’esistenza a ogni colpo di mortaio e a ogni foto di fossa comune (Zoara, Zawia…), il dibattito politico sembra essere quasi esclusivamente incentrato sulle ripercussioni che i fatti nordafricani potranno avere per le nostre economie e per il nostro tessuto sociale.
Domina incontrastata la realpolitik. Si parla tantissimo di petrolio e gas. Si scruta l’orizzonte del Mediterraneo con il terrore di scorgervi barconi ricolmi di immigrati (diecimila, centomila, un milione!). E, ancora con maggior terrore, si ipotizzano scenari di nuovi emirati islamici, alimentati dal fuoco venefico di Al Qaeda e pronti a far di noi un sol boccone. Tra qualche mese rintoccherà il decimo anniversario dell'11 settembre: è un ottimo momento per diffondere la paura. Lei ci sguazza in simili circostanze, attecchisce con rapidità. Lo sa anche Gheddafi, che infatti in appena ventiquattro ore ha cambiato strategia: non sono più gli Stati Uniti e l’Italia ad armare (e drogare) i giovani libici, no, dietro alle rivolte popolari c’è niente poco di meno che il redivivo Osama Bin Laden.
Schiacciati sotto il peso di queste funeste visioni fondamentaliste e di un petrolio che non scorre più negli oleodotti, i politici europei (e non solo quelli italiani) stanno perdendo di vista la grandissima occasione che la passione e il sacrificio delle popolazioni nordafricane ci stanno offrendo. Un’occasione doppia: globale e continentale. La prima, e la più importante, è la possibilità di far avanzare il vento della democrazia, spingendolo a soffiare su aree del pianeta che non ne hanno mai sentito il meraviglioso e rigenerante effetto. Non con le armi, non con i missili, forse nemmeno con i caschi blu. Più semplicemente, aiutandolo a crescere in un terreno che, pur arido nel destino geologico, sta riuscendo a mostrare in questo inizio di 2011 i primi miracolosi germogli.
Per come si sono sviluppate, le rivolte in Tunisia, in Egitto e in Libia appaiono diversissime. Ognuna procede per conto suo. Ma presentano tutte almeno un elemento in comune: una spinta più popolare che militare, più umanista che religiosa. I piccoli semi dell’informazione, in buona parte diffusi grazie a Internet e alle tecnologie, stanno dimostrandoci – per l’ennesima volta – che quando si sconfigge l’ignoranza, si pongono anche le basi per una crescita spontanea, naturale, quasi necessaria, dell’istinto democratico. E’ un discorso che vale anche al contrario: quando si lascia, anche solo per pigrizia, che l’ignoranza riconquisti terreno, allora la democrazia torna automaticamente in bilico. E il deserto dell’anima e della società avanza. In Italia abbiamo ancora molti buoni anticorpi, ma dovremmo fare attenzione: a volte piove fin troppa sabbia.
Nel caso del Nord Africa, dunque, non si tratterebbe di “esportare la democrazia”, ma di aiutarla a crescere. Di sostenerla. Di innaffiarla. Con le bombe? No. Con i soldi? Magari sì. Anche con un po’ di soldi. Ma non buttati lì a caso. Mi viene in mente il Piano Marshall (o per lo meno quello che io ricordo di aver studiato sul Piano Marshall). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, molti paesi europei si trovavano in una situazione disastrosa, non troppo lontana da quella che probabilmente si troverà ad affrontare la Libia del post-Gheddafi. Noi per primi. L’Italia del 1945 non solo era sofferente per le ferite della guerra (ferite materiali, ferite morali, ferite psicologiche), ma rimaneva un paese culturalmente e tecnologicamente arretrato. Non sono andato a recuperare dati e statistiche precise, ma già solo il tasso di analfabetismo era spaventosamente elevato (e addirittura dominante nelle campagne). Avevamo bisogno d'aiuto.
Inoltre, l’Italia era un paese politicamente in bilico. Avevamo perso la guerra (sì, l’avevamo persa, il coraggio dei partigiani non bastava a trasformarci in vincitori), ed eravamo sospesi su quel sottile filo che all’epoca separava le due grandi potenze che per i successivi cinquant'anni avrebbero preso in mano le redini del mondo: americani e sovietici, capitalismo e comunismo, democrazia e dittatura. Bastava un soffio per farci precipitare da una parte o dall’altra. A soffiare più forte nella loro direzione, attraverso gli aiuti del Piano Marshall, furono gli americani. Si può discutere per ore e ore sui lati negativi del capitalismo, sulla deriva amorale del blocco occidentale e si possono anche ricordare tutti i momenti difficili e drammatici vissuti dalla nostra giovane repubblica nei suoi primi sessantacinque anni. Ma credo che un dato sia ineccepibile: se fossimo caduti dall'altra parte, sarebbe andata molto peggio. La nostra democrazia, il nostro progresso, quello che siamo riusciti a costruire in questi sessantacinque anni non è tutto da buttare. Anzi, ci sono molti aspetti di cui dobbiamo essere orgogliosi e per i quali dobbiamo ringraziare i nostri padri e i nostri nonni. Noi non abbiamo bisogno di una rivoluzione: dobbiamo semplicemente risvegliarci e riprendere ad andare avanti.
Anche l’Europa ha bisogno di una scossa. E qui si presenta la seconda grande occasione. Perché il Piano Marshall del 2011, quello per aiutare i paesi del Nord Africa a risollevarsi dalle macerie delle loro dittature e a conquistare e costruire la loro democrazia, non spetterebbe più agli Stati Uniti. Spetterebbe, anche solo per ragioni geografiche, a noi europei. Sarebbe la grande chance per fare il definitivo salto di qualità. Superare le secche, cancellare i dubbi, spegnere i nostalgici sussulti di sciovinismo nazionalista. Uno straordinario esame di maturità per l'Europa come entità vera, e non solo come formula di carta.
Non sarebbe solo una scelta di pura e disinteressata grandezza morale. Alla realpolitik non si scappa mai del tutto. Contribuendo alla diffusione in Egitto, nel Maghreb, ovunque, del virus benefico della democrazia e al relativo sviluppo di economie locali giovani, forti e libere, sarebbe anche più facile trasformare in opportunità quegli incubi che agitano i nostri sonni e rafforzano il demone della paura. Si riaprirebbero gli oleodotti e non ci sarebbe nemmeno più bisogno di baciare mani orrende per aprire trattative commerciali di fornitura energetica. Si ridurrebbero gradualmente le ragioni che spingono migliaia di persone a cercar fortuna in un barcone. Si annienterebbe l’opzione Al Qaeda. Perché - magari mi sbaglio - ma quei volti visti in piazza Tahrir, al Cairo, non sembrano affatto desiderosi di passare da Mubarak a Bin Laden. Non credo che quei ragazzi vogliano farsi esplodere su un autobus o che quelle ragazze sognino di crescere nascoste sotto un burqa. La loro aspirazione è un’altra. E' una legittima aspirazione di libertà e di progresso. Ed è bello sostenerla. E' bello sognare non in grande, ma in grandissimo. La democrazia che contagia il Nord Africa. Non è un'immagine grandiosa? Tornate su, a sognarla sulla cartina che apre questo post...
La classe politica, soprattutto quella italiana, ripete come un mantra che l’Europa deve mostrarsi compatta. Però lo fa quasi solo in modo difensivo. Cosa significa che l’Europa deve mostrarsi compatta? Ovvio, che deve aiutare noi italiani a sopportare l’eventuale ondata di immigrati e magari anche a recuperare il prezioso gas/petrolio perduto. L’idea, insomma, è che i soldi e il sostegno politico/logistico del “nuovo Piano Marshall” non debbano andare ai paesi del Nord Africa ma debbano rimanere all’interno dei confini continentali. Un po' come se gli americani, dopo il 1945, invece che aiutare concretamente l'Europa si fossero limitati ad alzare un po' le mura di cinta dei centri d'accoglienza di Ellis Island. "Dobbiamo proteggerci! Dobbiamo proteggerci! Dobbiamo proteggerci!", urla il nostro ombelico e noi sempre gli diamo ascolto.
No. L’occasione è un’altra. E’ evidente che l’Europa non può lasciare che l’Italia gestisca (e subisca) da sola tutti gli effetti a breve termine delle rivolte nordafricane. Si spera che a Bruxelles (e a Parigi, e a Berlino) non la pensino così, sarebbe avvilente... Ma lo spirito generale deve essere un altro. L’approccio, deve essere un altro. L’Europa non può limitarsi a guardare il dito che indica tremolante l’orizzonte oltre Lampedusa. L’Europa deve alzarsi in tutta la sua statura (scoprendo così di averla, questa benedetta statura) e guardare direttamente la (mezza)luna. Senza ingordigia colonialista. Grazie a Dio è finita anche quell'epoca. Deve aiutare le popolazioni locali, deve intercettare e sostenere i movimenti politici che possono portare alla nascita di nuove repubbliche, deve finanziare progetti di ricostruzione, deve favorire il rafforzamento di quella emergente borghesia imprenditoriale locale che – molto probabilmente – ha svolto un ruolo ben più significativo di Al Qaeda nel montare delle rivolte. Deve partecipare con entusiasmo a una proliferazione virtuosa, impetuosa, inarrestabile e spontanea della democrazia. Una proliferazione che vola sulle ali del sapere, della conoscenza, della consapevolezza. Sulla democrazia noi non abbiamo alcuna esclusiva, ma semplicemente la fortuna nell'esserne stati baciati per primi e il merito di averci trovato gusto e aver continuato a pomiciare.
Non sarà facile e non si arriverà in fretta all'happy end. Non è neanche detto che ci sia, un happy end. Già l'inizio non è affatto happy: i morti della Libia non lo definirebbero certo così. Ma penso che la strada da percorrere sia quella, piuttosto che quella della paralisi, della paura e della malcelata e vergognosa speranza che - al posto di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi - torni qualche altro dittatore per proteggerci da Bin Laden o dalle navi da guerra iraniane. Non possiamo essere così squallidamente egoisti. L'Europa non può ragionare in questo modo. Deve muoversi per contribuire a generare un futuro migliore, più che limitarsi a difendere un presente traballante. Ha tutto da guadagnarci. Abbiamo tutto e tutti da guadagnarci. Innanzitutto nel portafoglio, perché quello è come la realpolitik: è impossibile pretendere che non ci sia. E poi, ancor di più nello spirito e nel recupero di un ideale perduto – il continuo progresso dell'intera umanità – a cui sarebbe bello, dopo tanto tempo e tante cupezze, tornare a pensare.