Le polemiche e i botta e risposta sul copyright e sul diritto d'autore si moltiplicano, anche sui quotidiani italiani. Oggi leggevo sull'inserto Nova del Sole 24 Ore la reazione di Giorgio Assumma (presidente della Siae) a un precedente intervento sulle stesse pagine di Massimo Mantellini.
Difendendo a spada tratta il diritto d'autore, Assumma scrive: "Il diritto d'autore non è un balzello, ma un diritto del lavoro. E' il salario di chi compone una canzone, scrive un romanzo, crea un film eccetera, e nessuno si sognerebbe di ridurre gli stipendi dei professori per aiutare, per esempio, la didattica" (la polemica era nata sull'utilizzo su Web a scopo didattico di materiale protetto da diritto d'autore).
Quelle di Assumma sono parole sacrosante. Il diritto d'autore è un salario che va pagato all'autore e che deve permettergli di sopravvivere e di continuare a creare.
Ma quando l'autore muore, non dovrebbe morire anche il diritto d'autore?
Perché c'é ancora qualcuno che guadagna soldi grazie alle canzoni di Elvis Presley, che ci ha lasciato ormai trent'anni fa? Perché Yoko Ono riceve le royalties su brani che i Beatles (e non certo lei) scrissero ancora prima che lei incontrasse John Lennon? E perché anche le case discografiche, le case d'edizione, e tutte le altre parti in causa ogni anno ricevono royalties su opere con cui non c'entrano assolutamente niente?
Assumma scrive: "Perché semplicemente, di Siae e società omologhe gli autori (più o meno famosi) e i loro eredi ci campano".
Vada per gli autori, ma gli eredi cosa c'entrano? Che diritto morale hanno sulle opere dei loro bisnonni, consuoceri o mariti morti?
Il primo esempio di Assumma riguardava i professori. Bene, mia madre ha insegnato per più di trent'anni in una scuola media. Ha guadagnato i suoi soldi, penso che abbia messo qualcosa da parte, ora è in pensione. Quando se ne andrà (speriamo tra due o tre secoli) presumibilmente lascerà quello che ha risparmiato a me e mia sorella. Stessa cosa per mio padre, che vende apparecchi chimici. Non lasceranno le loro pensioni o le "royalties" sul loro lavoro. Se io vorrò continuare a vivere, comprare poster su eBoy, andare al cinema e magari mettere su famiglia i soldi me li dovrò guadagnare. Con l'aiuto dell'eredità, ok. Ma senza il foraggio di un diritto d'autore su i compiti corretti da mia madre o le provette vendute da mio padre. E lo stesso discorso vale per qualsiasi tipo di lavoro. Che "royalties" lascia ai figli il panettiere? E il poliziotto? E l'operaio?
Per gli autori dovrebbe essere lo stesso. Elvis Presley avrà guadagnato un fracco di soldi nella sua carriera e presumibilmente ne avrà lasciati un bel po' ai suoi eredi. Bene, giusto, una normale eredità frutto di anni di lavoro. Perché Pino Presley, Michael Presley, Priscilla Presley o qualsiasi altro discendente da Elvis dovrebbe ottenere anche delle royalties aggiuntive per dieci, venti, trent'anni su canzoni che non ha mai scritto?
Mi si risponderà: perché c'è una legge che dice così.
Ok, ma come è stata scritta quella legge? Quali sono state la sua genesi e la sua evoluzione?
Vado a memoria, quindi sarò forse impreciso sui dettagli, però mi risulta che le prime leggi sul diritto d'autore - che nacquero proprio per tutelare e garantire gli autori (e non qualcun altro) - avessero delle durate molto più ridotte e addiritura prevedessero la cessazione dei diritti su un'opera con ancora l'autore in vita. Diciotto anni, mi pare fosse la durata del primo copyright negli Stati Uniti.
Poi qualcuno si accorse dei fantastici poteri del catalogo. Le opere migliori continuavano a essere vendute molti anni dopo la loro pubblicazione, generando super-profitti. Bisognava assolutamente fare in modo di controllarle più a lungo. Da qui i periodici "allungamenti" del periodo del copyright, sostenuti soprattutto dalle lobby dei produttori (discografici, cinematografici, librari). Come quello che in questi mesi viene dibattuto in Europa, per scongiurare che tra pochi anni le canzoni dei Beatles diventino di pubblico dominio.
Si fa tanto parlare dell'immoralità di chi scarica canzoni o film da Internet. Rubano il pane dalla tavola degli autori, si dice. Cioé, se io scarico una canzone di Jimi Hendrix a quale autore sottraggo il pane? Visto che si parla di moralità, quali sono le basi morali che giustificano questa espansione ad libitum del diritto d'autore? Non esistono. Non hanno senso. Sono solo frutto di convenzioni costruite ad arte nell'ultimo secolo.
Proprio perché si chiama così, il diritto d'autore dovrebbe tutelare esclusivamente l'autore. Finché vive, è giusto che si goda il frutto del suo lavoro. Quando muore, l'opera diventa di pubblico dominio, patrimonio di una collettività che ha un disperato bisogno di essere trattata come un insieme di cittadini da coltivare intellettualmente e non solo di consumatori da spremere. Non esiste alcuna ragione logica, etica, culturale, sociale o economica in grado di confutare questa posizione.
E' vero che perdendo i diritti sul catalogo gli editori e i produttori perderanno la loro più feconda gallina dalle uova d'oro. Ma allora forse saranno spronati a inventare qualche altra nuova gallina, a rigenerare la cultura (qui intesa essenzialmente come musica, cinema, letteratura), a farle recuperare quel ruolo di propulsione artistica in caduta libera. Senza indugiare in operazioni che in certi casi possono anche assumere connotati di cattivo gusto. Cosa penserà, da lassù, Fabrizio De André di tutte queste compilation con le sue Marinelle e le sue Bocca di Rosa che escono un Natale sì e l'altro pure? E il buon vecchio Lucio Battisti, forse il nostro miglior autore del ventesimo secolo, la colonna sonora della nostra anima? Perché le loro canzoni oggi non sono di tutti?
Lo ammetto: anch'io ho amato e invidiato lo Hugh Grant di About a Boy, che ciondola pigramente senza lavorare, grazie alle royalties di una canzone natalizia scritta dal babbo (che peraltro lui odia e non vorrebbe mai sentire). Ecco, per quanto ironica e irresistibile, quella è una fotografia di una delle grandi distorsioni dell'attuale sistema sul diritto d'autore. Perché Hugh Grant deve ricevere quell'assegno mensile? E' un autore? No. E allora perché deve essere tutelato e mantenuto da un "diritto d'autore"?
Difendendo a spada tratta il diritto d'autore, Assumma scrive: "Il diritto d'autore non è un balzello, ma un diritto del lavoro. E' il salario di chi compone una canzone, scrive un romanzo, crea un film eccetera, e nessuno si sognerebbe di ridurre gli stipendi dei professori per aiutare, per esempio, la didattica" (la polemica era nata sull'utilizzo su Web a scopo didattico di materiale protetto da diritto d'autore).
Quelle di Assumma sono parole sacrosante. Il diritto d'autore è un salario che va pagato all'autore e che deve permettergli di sopravvivere e di continuare a creare.
Ma quando l'autore muore, non dovrebbe morire anche il diritto d'autore?
Perché c'é ancora qualcuno che guadagna soldi grazie alle canzoni di Elvis Presley, che ci ha lasciato ormai trent'anni fa? Perché Yoko Ono riceve le royalties su brani che i Beatles (e non certo lei) scrissero ancora prima che lei incontrasse John Lennon? E perché anche le case discografiche, le case d'edizione, e tutte le altre parti in causa ogni anno ricevono royalties su opere con cui non c'entrano assolutamente niente?
Assumma scrive: "Perché semplicemente, di Siae e società omologhe gli autori (più o meno famosi) e i loro eredi ci campano".
Vada per gli autori, ma gli eredi cosa c'entrano? Che diritto morale hanno sulle opere dei loro bisnonni, consuoceri o mariti morti?
Il primo esempio di Assumma riguardava i professori. Bene, mia madre ha insegnato per più di trent'anni in una scuola media. Ha guadagnato i suoi soldi, penso che abbia messo qualcosa da parte, ora è in pensione. Quando se ne andrà (speriamo tra due o tre secoli) presumibilmente lascerà quello che ha risparmiato a me e mia sorella. Stessa cosa per mio padre, che vende apparecchi chimici. Non lasceranno le loro pensioni o le "royalties" sul loro lavoro. Se io vorrò continuare a vivere, comprare poster su eBoy, andare al cinema e magari mettere su famiglia i soldi me li dovrò guadagnare. Con l'aiuto dell'eredità, ok. Ma senza il foraggio di un diritto d'autore su i compiti corretti da mia madre o le provette vendute da mio padre. E lo stesso discorso vale per qualsiasi tipo di lavoro. Che "royalties" lascia ai figli il panettiere? E il poliziotto? E l'operaio?
Per gli autori dovrebbe essere lo stesso. Elvis Presley avrà guadagnato un fracco di soldi nella sua carriera e presumibilmente ne avrà lasciati un bel po' ai suoi eredi. Bene, giusto, una normale eredità frutto di anni di lavoro. Perché Pino Presley, Michael Presley, Priscilla Presley o qualsiasi altro discendente da Elvis dovrebbe ottenere anche delle royalties aggiuntive per dieci, venti, trent'anni su canzoni che non ha mai scritto?
Mi si risponderà: perché c'è una legge che dice così.
Ok, ma come è stata scritta quella legge? Quali sono state la sua genesi e la sua evoluzione?
Vado a memoria, quindi sarò forse impreciso sui dettagli, però mi risulta che le prime leggi sul diritto d'autore - che nacquero proprio per tutelare e garantire gli autori (e non qualcun altro) - avessero delle durate molto più ridotte e addiritura prevedessero la cessazione dei diritti su un'opera con ancora l'autore in vita. Diciotto anni, mi pare fosse la durata del primo copyright negli Stati Uniti.
Poi qualcuno si accorse dei fantastici poteri del catalogo. Le opere migliori continuavano a essere vendute molti anni dopo la loro pubblicazione, generando super-profitti. Bisognava assolutamente fare in modo di controllarle più a lungo. Da qui i periodici "allungamenti" del periodo del copyright, sostenuti soprattutto dalle lobby dei produttori (discografici, cinematografici, librari). Come quello che in questi mesi viene dibattuto in Europa, per scongiurare che tra pochi anni le canzoni dei Beatles diventino di pubblico dominio.
Si fa tanto parlare dell'immoralità di chi scarica canzoni o film da Internet. Rubano il pane dalla tavola degli autori, si dice. Cioé, se io scarico una canzone di Jimi Hendrix a quale autore sottraggo il pane? Visto che si parla di moralità, quali sono le basi morali che giustificano questa espansione ad libitum del diritto d'autore? Non esistono. Non hanno senso. Sono solo frutto di convenzioni costruite ad arte nell'ultimo secolo.
Proprio perché si chiama così, il diritto d'autore dovrebbe tutelare esclusivamente l'autore. Finché vive, è giusto che si goda il frutto del suo lavoro. Quando muore, l'opera diventa di pubblico dominio, patrimonio di una collettività che ha un disperato bisogno di essere trattata come un insieme di cittadini da coltivare intellettualmente e non solo di consumatori da spremere. Non esiste alcuna ragione logica, etica, culturale, sociale o economica in grado di confutare questa posizione.
E' vero che perdendo i diritti sul catalogo gli editori e i produttori perderanno la loro più feconda gallina dalle uova d'oro. Ma allora forse saranno spronati a inventare qualche altra nuova gallina, a rigenerare la cultura (qui intesa essenzialmente come musica, cinema, letteratura), a farle recuperare quel ruolo di propulsione artistica in caduta libera. Senza indugiare in operazioni che in certi casi possono anche assumere connotati di cattivo gusto. Cosa penserà, da lassù, Fabrizio De André di tutte queste compilation con le sue Marinelle e le sue Bocca di Rosa che escono un Natale sì e l'altro pure? E il buon vecchio Lucio Battisti, forse il nostro miglior autore del ventesimo secolo, la colonna sonora della nostra anima? Perché le loro canzoni oggi non sono di tutti?
Lo ammetto: anch'io ho amato e invidiato lo Hugh Grant di About a Boy, che ciondola pigramente senza lavorare, grazie alle royalties di una canzone natalizia scritta dal babbo (che peraltro lui odia e non vorrebbe mai sentire). Ecco, per quanto ironica e irresistibile, quella è una fotografia di una delle grandi distorsioni dell'attuale sistema sul diritto d'autore. Perché Hugh Grant deve ricevere quell'assegno mensile? E' un autore? No. E allora perché deve essere tutelato e mantenuto da un "diritto d'autore"?